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23/12/24 ore

Putin e i 100 anni della Rivoluzione d'Ottobre



di Marco Di Liddo * (da Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali)

 

Le commemorazioni per il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, avvenute lo scorso 7 novembre sulla Piazza Rossa di Mosca, al di là del loro inequivocabile valore storico, hanno rappresentato una valida occasione per misurare lo spettro dell’attuale situazione politica russa.

 

Infatti, nonostante l’immagine monolitica che i media di Stato cercano costantemente di trasmettere all’estero e gli eccessi di semplificazione talvolta compiuti dalla stampa straniera, il Paese attraversa una fase di stabilità meno forte rispetto al recente passato e, al contrario, dal 2014 ha dovuto compiere sforzi significativi per arginare i costi politici, sociali ed economici della propria condotta internazionale e della cattiva congiuntura del mercato delle commodity e degli idrocarburi, due prodotti che continuano a costituire la spina dorsale del sistema produttivo e della ricchezza nazionali.

 

In questo senso, le sanzioni euro-atlantiche connesse all’annessione della Crimea, al supporto politico-militare all’insorgenza nel Donbas e l’improvviso abbassamento dei prezzi del petrolio fino alla soglia dei 30 dollari al barile, a fronte di punto di pareggio produttivo pari a 40 dollari al barile, hanno inciso sul benessere dei russi ed hanno costretto lo Stato a ridimensionare parzialmente la spesa pubblica, suscitando un crescente malcontento in sezioni trasversali dell’elettorato, dalla media borghesia urbana fino ai giovani cresciuti ed educati dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

 

Al peso della cattiva congiuntura economica occorre aggiungere altri fattori che hanno contribuito a ingrossare le fila del fronte anti-governativo: in primis la timida eco di Euromaidan che, nonostante il tentativo del Cremlino di etichettarla come un semplice colpo di Stato neo-fascista, ha scosso dal torpore politico alcune frange dell’opposizione liberale; l’attivismo di alcune organizzazioni della società civile, di partiti anti-sistemici e dei loro leader, a cominciare dal controverso Alexei Navalny; l’azione di influenza svolta da alcune ONG straniere che, almeno fino al 2012, hanno contribuito a supportare i movimenti di protesta fino a che la legge 121-FZ ne rendesse illegali le iniziative.

 

In base a queste considerazioni e al fermento che attraversa parte della società russa, è possibile intuire alcune delle motivazioni che hanno spinto il Presidente Vladimir Putin a ridurre al minimo le celebrazioni per il centenario della Rivoluzione d’Ottobre e, soprattutto, a disertare la cerimonia del 7 novembre, delegando il sindaco di Mosca Sergei Sobyanin a rappresentare le autorità.

 

Infatti, con l’approcciarsi delle elezioni presidenziali del prossimo 18 marzo, quelle che potrebbero verosimilmente assegnare il quarto mandato a Putin e designarlo alla guida del Paese fino al 2024 e al compimento del 71mo anno di età, con l’economia vicina alla stagnazione e con i movimenti di protesta in crescente attività, il leader del Cremlino ha preferito depotenziare al massimo il significato simbolico della rivoluzione e del suo intrinseco messaggio sovversivo e anti-istituzionale.

 

A questo proposito, non è un caso che la propaganda nazionale abbia dipinto le celebrazioni del 7 novembre non come l’anniversario della presa del potere dei bolscevichi bensì come la ricorrenza della famosa parata militare del 1941, quando le truppe dell’Armata Rossa sfilarono armate per poi partire immediatamente a combattere le truppe naziste, in quel momento a giunti a ridosso della stazione più occidentale della metropolitana di Mosca.

 

Inoltre, lo spettacolo dei festeggiamenti ha incluso, prima della sfilata dei militari in uniforme storica sovietica, rievocazioni di battaglie ben antecedenti al 1917, quali Kulikovo (1380), Poltava (1709) e Borodino (1812), a testimonianza del carattere nazionalista e non ideologico dell’evento. In sintesi, la parata del 7 novembre è apparsa come una piccola rilettura della grande rivista militare del 9 maggio, giorno in cui la Russia festeggia la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.

 

La scenografia dell’anniversario del 7 novembre rispecchia in pieno il rapporto tra la linea ideologica putinista e il passato sovietico, caratterizzato da un profondo pragmatismo funzionale agli interessi della struttura di potere. Infatti, il Presidente russo ha sempre condannato l’ideologia leninista e la repressione politica pur riconoscendo i meriti del centralismo stalinista, ha costantemente obbiettato la pianificazione produttiva pur sostenendo la necessità della statalizzazione degli assetti strategici, ha sottolineato con disprezzo il basso tenore di vita degli ultimi anni dell’era brezneviana pur lodando i meriti sovietici in materia culturale, scientifica e militare.

 

Putin non ha mai espresso posizioni nostalgiche pur definendo la dissoluzione dell’URSS la più grande tragedia geopolitica del ventesimo secolo. Tale approccio pragmatico-funzionalista gli ha impedito di osannare, con la sua presenza, gli eventi eversivi dell’ottobre 1917 ma, al contempo, rende necessario il rito nazional-popolare del 4 maggio.

 

Inoltre, non bisogna dimenticare che, attualmente, la narrativa e il simbolismo comunista sono appannaggio del Partito Comunista Russo (PCR), formazione nata sulle ceneri del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) e parte del mosaico di opposizioni sistemiche accettate all’interno della Duma. Il PCR, guidato da Gennady Zyuganov, oscilla intorno al 15% delle preferenze e condivide in larga maggioranza le strategie politiche del Cremlino.

 

Tuttavia, anche in un sistema politico a “democrazia guidata” come quello russo, caratterizzato da un meccanismo elettorale ancora gravato da brogli e scarsa trasparenza, l’aumento di sostegno popolare ad una formazione partitica può tradursi nella rinegoziazione dei patti informali tra leader e formazioni politiche, generando un ribilanciamento di cariche ed una redistribuzione dei privilegi in grado di destabilizzare l’architettura di potere.

 

In questo senso, un’eccessiva celebrazione della Rivoluzione d’Ottobre avrebbe potuto costituire un enorme spot elettorale per il PCR e per le opposizioni extra-parlamentari e non sistemiche di sinistra, come ad esempio l’Avanguardia della Gioventù Rossa di Sergei Udaltsov e il Partito Comunista dei Lavoratori del Partito Comunista dell’Unione Sovietica di Viktor Tyulkin, entrambe parte dell’organizzazione-ombrello Fronte di Sinistra.

 

Oltre all’assenza e al depotenziamento delle celebrazioni dell’Ottobre Rosso, la preoccupazione di Putin circa la stabilità interna della Russia potrebbe apparire visibile dalla decisione, occorsa sempre il 7 novembre, di offrire ai governatori regionali la protezione “facoltativa” di reparti della neonata Guardia Nazionale (GN).

 

Nata nel 2016, la GN, chiamata familiarmente Rosgvardiya, è una forza militare interna formata dall’accorpamento delle truppe del Ministero dell’Interno, degli OMON ((Unità Speciale Mobile della Polizia) e delle SOBR (Squadra Speciale di Reazione Rapida della Polizia) con compiti che variano dalla protezione delle infrastrutture e dei siti sensibili fino all’anti-sommossa e all’anti-terrorismo.

 

Comandata dall’ex guardia del corpo di Putin, Gen. Viktor Zolotov, la GN non è inserita nell’organigramma né del Ministero della Difesa né tantomeno di quello dell’Interno e risponde direttamente all’autorità presidenziale, configurandosi come una vera e propria guardia pretoriana del Capo dello Stato in grado di intervenire a protezione dell’ordine pubblico e delle personalità politiche di rilievo in caso di proteste popolari e di ammutinamento di Polizia o Forze Armate.

 

In questo senso, Putin sembra temere scenari come quelli concretizzatisi in Ucraina nel 2014, in alcuni dei Paesi arabi (Egitto e Tunisia su tutti) durante le Primavere Arabe e in Unione Sovietica nell’agosto del 1991 (tentativo fallito di colpo di Stato) quando una parte dell’esercito e della polizia rifiutarono di eseguire gli ordini dei rispettivi comandi e familiarizzarono con gli insorti, contribuendo al successo delle rivolte. Tuttavia, è bene sottolineare come l’invio di unità della Rosgvardiya a protezione dei governatori possa essere interpretato come la volontà di porre gli stessi sotto il vigile controllo di un organo diretto da Mosca, scoraggiando eventuali embrionali derive anti-governative.

 

L’offerta di protezione della GN è giunta a poche settimane di distanza dalla nomina presidenziale di 11 nuovi governatori regionali, decisione interpretabile come volontà sia di mostrare all’elettorato un apparente rinnovamento della classe dirigente in vista delle elezioni sia di favorire l’ascesa di una nuova “leva putiniana” di amministratori che soppianti quella vecchia, i cui esponenti non hanno tardato a costruire la propria rete di potere locale, cercando così di emanciparsi dalla rigida potestà di Mosca.

 

Il timore di Putin di sollevazioni popolari e le misure preventive messe in atto negli ultimi mesi non rappresentano una forma di mera paranoia politica, bensì la risposta muscolare ad un malcontento che, per quanto al momento minoritario, appare visibile e concreto.

 

Basti pensare alle numerose manifestazioni anti-governative occorse nel 2017, la maggior parte non autorizzate dalle autorità, caratterizzate da una ventaglio ideologico eterogeneo (anti-corruzione, ultranazionalismo, comunismo) e che hanno avuto in Navalny il loro leader più carismatico e seguito, represse violentemente e culminate in ondate di centinaia di arresti.

 

In ogni caso, appare opportuno sottolineare come, ad oggi, le opposizioni e i loro capi non costituiscono una minaccia concreta alla leadership di Putin. Infatti, sostenuto dalla macchina propagandistica di Stato, dall’evocazione del nazionalismo pan-russo e dalla manipolazione interna della politica internazionale (guerra in Siria, lotta al terrorismo, rilancio del prestigio globale russo) ed indubbiamente favorito dalla lenta risalita del prezzo delle commodity e del petrolio (60 dollari al barile), il Presidente russo può ancora contare su un vasto sostegno popolare e dalla fedeltà di oligarchi e siloviki (letteralmente “uomini forti”) della sua cerchia di potere.

 

Sebbene le proiezioni economiche non siano lusinghiere (crescita stimata in appena 1,3% del PIL per il 2017 e del 1,6% per il 2018), la fase critica della recessione sembra passata.

 

Al di là del quasi scontato successo alle prossime elezioni del 2018, in cui le nuove alternative corrispondono alle candidature cosmetiche di Ksenia Sobchak (la “Paris Hilton” russa), figlia del padrino politico di Putin, Anatoly Sobchak, e della giornalista / cantante Yekaterina Gordon, Putin dovrà continuare a confrontarsi con i mali sistemici della società russa e con le vulnerabilità strutturali del Paese, ossia la mancanza di innovazione tecnologica, l’obsolescenza economica, le crescenti richieste di rispetto dei diritti politici e civili, la corruzione e le rigidità di un sistema di potere strettamente verticale.

 

Come se non bastasse, il prossimo mandato putiniano dovrà necessariamente cominciare ad affrontare il tema della successione ad una figura che domina la scena politica dal 1999.

 

Non si tratta di una tematica scontata, in quanto, per la prima volta nella storia recente russa, manca un meccanismo standardizzato di passaggio e trasferimento del potere: durante l’epoca zarista valeva la successione dinastica, negli anni sovietici era il politburo a designare il leader, nella parentesi eltsiniana a stabilire il vertice dello Stato era un ibrido di democrazia parlamentare appena accennata e la cupola delle organizzazioni criminali e degli oligarchi (la cosiddetta “Famiglia”). Con Putin, il potere si è concentrato in maniera profonda nelle mani di un solo uomo senza che sia stato stabilito un meccanismo “ereditario”.

 

Ad influenzare la dinamica di creazione del meccanismo di successione e l’elaborazione delle strategie politiche, economiche e militari del prossimo futuro potrebbero concorrere fattori contingenti quali il prezzo delle commodity e degli idrocarburi. Infatti, una Russia non modernizzata e nuovamente esposta al crollo del barile potrebbe mostrare il fianco alla crescita del malcontento popolare, mettendo a repentaglio la stabilità dell’élite di potere che, spesso, si sgretola in maniera improvvisa e inaspettata. Forse, questa è la lezione che la Rivoluzione d’Ottobre e gli avvenimenti che le sono susseguiti, con il culmine del 1991, possono insegnare maggiormente all’inquilino del Cremlino. 

 

* Marco Di Liddo 

Senior Analyst. Desk Africa. Desk Balcani ed ex-URSS

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 (da Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali)

 

 


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