di Lorenzo Marinone *
(da Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali)
Lo scorso 4 novembre, il Primo Ministro libanese Saad Hariri ha rassegnato a sorpresa le sue dimissioni, scuotendo profondamente i già fragili equilibri del Paese. Il suo passo indietro porta verso una nuova paralisi l’Esecutivo, formato appena un anno fa, e il Parlamento, che negli ultimi mesi era riuscito a riprendere le sue attività e ad approvare, dopo difficili contrattazioni, una nuova legge elettorale attesa da anni, che ha di fatto spianato la strada verso nuove elezioni politiche, previste per maggio 2018.
In un discorso da Riyadh, Hariri ha motivato le dimissioni alludendo a un oscuro tentativo di attentato ai suoi danni, per poi accusare l’Iran e il partito sciita Hezbollah, principale alleato di Teheran nel Paese, di perseguire un’agenda tesa a destabilizzare la regione. Tuttavia, al di là della retorica espressa in queste dichiarazioni, la ragione principale della mossa di Hariri risiede nelle dinamiche interne della politica libanese.
Nel corso dell’ultimo anno, lo sblocco dell’impasse sull’elezione del Presidente, avvenuta il 31 ottobre 2016, e l’approvazione della nuova legge elettorale, lo scorso giugno, hanno segnato altrettante sconfitte per Hariri e il suo Partito Futuro (PF), che si trovano attualmente in una posizione di particolare debolezza.
L’ascesa alla presidenza del cristiano-maronita Michel Aoun, del Movimento Patriottico Libero (MPL) sostenuto da Hezbollah, con cui è alleato nella Coalizione 8 Marzo, è il risultato di un incauto azzardo di Hariri, che ha bruciato la candidatura del suo alleato Samir Geagea, esponente delle Forze Libanesi (FL), inducendolo a riavvicinarsi allo storico rivale Aoun e a sostenerlo, creando una frattura all’interno della Coalizione 14 Marzo di Hariri.
Un ulteriore indizio della debolezza del leader sunnita si è materializzato con il voto sulla legge elettorale. Infatti, l’impianto proporzionale, abbinato al sistema di preferenze legate al distretto elettorale, tende a favorire l’affermazione di candidati espressione delle minoranze.
In questo senso, allontanandosi dal precedente sistema del “vincitore prende tutto”, dalla prossima tornata elettorale è lecito attendersi una crescita dei partiti sciiti e, in misura minore, cristiani. Perciò, se da un lato questa legge garantisce al Parlamento maggiore rappresentatività, dall’altro rischia proprio di compromettere la performance elettorale dei partiti sunniti.
Occorre sottolineare che questi sviluppi recenti sono avvenuti in un contesto politico che vede ormai da tempo Hariri e Hezbollah far parte della stessa compagine di governo. Infatti, già nel 2014 le due coalizioni, 8 Marzo e 14 Marzo, avevano formato un esecutivo di unità nazionale, formula ribadita anche per la squadra di governo guidata da Hariri dal 2016.
Questa coabitazione forzata, che nei fatti ha portato a un progressivo consolidamento politico di Hezbollah, rischia di rappresentare un ulteriore e profondo motivo di disaffezione dell’elettorato sunnita verso il partito di Hariri, su cui si addensano le accuse di svolgere un ruolo di comprimario, quando non di mero passacarte di Aoun e del Partito di Dio.
In base a quanto detto finora, le dimissioni di Hariri sembrano rappresentare un tentativo di riposizionamento all’interno dello scacchiere politico libanese, la cui tempistica è dettata in modo prevalente dall’imminenza delle prossime elezioni.
Lasciando vacante la carica di Primo Ministro, il leader sunnita cerca di distanziarsi in modo chiaro da Hezbollah, in modo da poter affrontare la prossima campagna elettorale con una libertà di criticare l’operato dell’Esecutivo che il suo precedente ruolo istituzionale non gli avrebbe consentito.
D’altronde, una mossa del genere non costituisce assolutamente un unicum nella storia del Paese. Esattamente come Hariri, anche altri esponenti sunniti negli ultimi anni hanno rassegnato le loro dimissioni pochi mesi prima delle elezioni.
Ne sono un esempio Najib Mikati, che nel 2013 aveva abbandonato la poltrona di Premier in un momento in cui sembrava possibile un ritorno a breve alle urne, e l’ex ministro della Giustizia Ashraf Rifi, che aveva lasciato il suo incarico all’inizio del 2016, a meno di due mesi dalle elezioni municipali, nelle quali ha poi ottenuto un buon risultato la lista sostenuta da Rifi a Tripoli. Non sembra un caso che in entrambe queste circostanze le dimissioni siano avvenute nell’ambito di governi caratterizzati da una forte presenza di Hezbollah.
Al di là della tempistica, il fatto che Hariri abbia dato l’annuncio delle sue dimissioni da Riyadh, invece che dal Libano, costituisce un chiaro messaggio indirizzato sia al Partito di Dio e all’Iran, sia ai partiti e all’elettorato sunniti.
Occorre evidenziare che la presa di distanza dell’ex Premier da Hezbollah ben si accorda con la priorità dell’Arabia Saudita di contenere l’espansione dell’influenza di Teheran nell’intera regione. Con il conflitto siriano che volge ormai stabilmente a favore di Assad, anche grazie all’apporto fornitogli dall’Iran e dal ramo militare di Hezbollah, il timore saudita è che l’effetto di questa vittoria si riverberi anche in Libano, andando a rafforzare i partiti sciiti.
Parlando da Riyadh, Hariri ha di fatto riaffermato il suo legame con il Regno, lasciando intuire che la sua forza non si esaurisce nei risultati decretati dalle urne. Allo stesso tempo, Hariri ha anche potuto ribadire, di fronte alle altre formazioni sunnite e al suo elettorato, quel ruolo di principale referente della monarchia saudita in Libano che la sua famiglia ha rivestito negli ultimi decenni. In tal modo, l’ex Primo Ministro tenta di dimostrare che, nonostante le sconfitte politiche subite di recente, l’egemonia nel campo sunnita non è assolutamente in discussione.
Con le dimissioni annunciate dall’Arabia Saudita, Hariri ha decretato inequivocabilmente la fine di quella lunga fase di congelamento della vita politica libanese che era seguita allo scoppio della guerra civile in Siria, nel tentativo di evitare che il caos di Damasco dilagasse oltre confine, riaccendendo quelle tensioni mai del tutto sopite in Libano.
Certamente, per quanto deleteria per le gravi problematiche sociali ed economiche che attanagliano il Libano, la paralisi istituzionale di questi anni ha evitato che la prospettiva di una resa dei conti esacerbasse le relazioni tra i diversi partiti, con il rischio di affossare gli equilibri istituzionali emersi dalla guerra civile e di spianare la strada per un confronto anche violento.
Inevitabilmente, la progressiva risoluzione del conflitto siriano, che vede l’emergere di un Hezbollah e di un Iran rafforzati, trascina anche Beirut all’interno delle dinamiche della competizione regionale per l’egemonia che contrappone l’Arabia Saudita alla Repubblica Islamica.
* Lorenzo Marinone, Analista. Desk Nord Africa e Medio Oriente (da Ce.S.I. - Centro Studi Internazionalii)