di Massimo Congiu*
(da Affari Internazionali)
Ci sono evidenti somiglianze tra la Polonia del governo guidato da Beata Szydło e l’Ungheria di Viktor Orbán. Gli esecutivi di entrambi i Paesi hanno dato luogo ad una politica che per molti versi ignora lo stato di diritto.
C’è arrivato prima Orbán, che è al potere dal 2010. Negli anni scorsi il suo governo ha fatto approvare una nuova Costituzione di carattere autoritario e nazionalista e concepito leggi che minano la libertà di stampa e pongono sotto il suo controllo la magistratura e la Corte costituzionale. Ora è la volta della Polonia che, con il partito Diritto e Giustizia (PiS) al potere, si sta muovendo in una direzione analoga. Anche nel suo caso, infatti, sono fortemente a rischio la separazione dei poteri, l’autonomia del sistema giudiziario e la libertà di informazione.
Proposta politica per intercettare il malcontento
Ma proviamo a ricostruire sinteticamente il percorso che ha portato il Paese a questa situazione. Nell’ottobre del 2015 il PiS vince le elezioni sostituendosi al governo delle “élite liberali” – guidato fino all’anno prima dall’attuale presidente del Consiglio europeo Donald Tusk – che aveva scontentato la società polacca fino ad allontanarla dalla politica. Jarosław Kaczyńsky, presidente del partito vincitore ed ex premier, non perde tempo e inizia a purgare la tv e la radio di Stato licenziando i giornalisti ostili al nuovo governo.
Il risultato è che oggi il sistema mediatico pubblico non osa criticare le scelte politiche dell’esecutivo. Gli organi di stampa legati all’opposizione sono tagliati fuori dal mercato pubblicitario delle aziende di Stato o di quelle che fanno affari con esse. Tale sorte è toccata anche a Gazeta Wyborcza, il più importante quotidiano del Paese, che comunque, per ora, mantiene il primato.
Facciamo un passo indietro: in campagna elettorale, il PiS si era rivolto in modo efficace ad un elettorato scontento della gestione politica del governo in carica e dell’iniqua spartizione della ricchezza nazionale. Il partito di Kaczyńsky aveva promesso sussidi alle famiglie, misure severe per scoraggiare l’immigrazione e una serie di disposizioni atte a limitare la già citata libertà di stampa e l’autonomia del sistema giudiziario, considerato da buona parte della popolazione corrotto e privilegiato.
C’erano, insomma, già da allora, tutte le premesse per dare inizio ad un nuovo corso politico basato sull’accentramento dei poteri nelle mani del governo e sul controllo, da parte di quest’ultimo, dei settori strategici che regolano la vita pubblica della Polonia. Complice l’imbavagliamento del comparto mediatico e lo screditamento e depotenziamento della stampa d’opposizione.
Giustizia, una riforma incompiuta
Dopo il suo insediamento, l’esecutivo presieduto dalla Szydło ha di fatto approvato diverse misure per ridurre l’indipendenza del potere giudiziario, fino ad arrivare alle disposizioni dello scorso luglio che quasi azzerano l’autonomia dei magistrati. Con esse la maggioranza ha la facoltà di eleggere la maggioranza dei funzionari del Consiglio superiore della magistratura, privato del potere di nominare i giudici della Corte Suprema, che vede la rimozione di 83 magistrati. La reazione non è mancata: l’estate scorsa ci sono state manifestazioni di protesta in cento città del Paese promosse dall’opposizione politica e dalla società civile e “incorniciate” da bandiere Ue.
“Libertà, uguaglianza, democrazia! Tribunali liberi!”, la richiesta urlata dai manifestanti per i quali il governo stava violando la Costituzione polacca, i principi democratici e quelli europei.
Dopo queste dimostrazioni e sotto la pressione dei richiami dell’Unione europea, il capo dello Stato Andrzej Duda – esponente del PiS – ha posto il veto su due delle tre proposte di legge della riforma. La decisione del presidente ha sorpreso Kaczyńsky e provocato la reazione critica della premier, secondo la quale il veto rallenta il percorso che darà modo ai polacchi di vivere in un Paese più giusto. All’ultimatum dell’Ue, la Szydło ha controbattuto che la riforma non è contraria alle norme europee.
Il presidente ha poi offerto un compromesso che però non è piaciuto a Bruxelles e alla fine dei conti la sua iniziativa ha solo rinviato la definizione dell’affare ad un momento più propizio. Resta il fatto che la riforma del PiS è rimasta incompiuta, almeno per ora, mentre la Commissione europea tiene sotto controllo la situazione attraverso il meccanismo previsto dai Trattati in caso di violazioni dello stato di diritto nei Paesi membri (e che ha come sanzione la sospensione dei diritti di voto in Consiglio, la cosiddetta “opzione nucleare”).
Ad oggi, la Commissione ha avviato l’iter di confronto fra Bruxelles e Varsavia che potrebbe portare presto – a discrezione dell’esecutivo Juncker – all’avvio di una procedura per infrazione di fronte alla Corte di giustizia dell’Ue.
Sovrani, cristiani ed equi
Gli ultimi sondaggi mostrano che il partito di governo ha perso due punti percentuali rispetto alle elezioni del 2015. Resta comunque la principale forza politica del Paese, l’unico ad avere ottenuto la maggioranza del Parlamento dal 1989, continua ad ostentare sicurezza e definisce “folcloristiche” le manifestazioni di massa organizzate dall’opposizione. Sostiene di battersi per una Polonia sovrana, cristiana (basti pensare alle disposizioni restrittive contro l’aborto di un anno fa) ed equa.
Ha costruito le sue fortune anche sulla disaffezione dell’opinione pubblica dalla politica vista da molti come qualcosa di strano, inattingibile e lontano dai bisogni della gente. Ha basato la sua azione politica su una narrazione che somiglia a quella dell’Ungheria di Orbán; la sua chiave di lettura è che la Polonia ha bisogno di un potere forte, capace di rimettere ordine e ristabilire una serie di valori: quelli nazionali, cristiani, della famiglia, ignorati o addirittura avversati dalle élite liberali.
I rapporti con i vertici dell’Ue sono conflittuali. Il governo polacco punta il dito contro la “dittatura dei tecnocrati di Bruxelles” che avrebbero la pretesa di dettar legge in casa d’altri. Sostiene la causa dell’Europa delle nazioni e delle patrie al posto del sistema federalista che, a suo dire, è andato incontro al più evidente dei fallimenti, e critica la politica adottata dall’Ue in ambito migratorio. Lo fa in coro con gli altri paesi del Gruppo di Visegrád (V4) che vede Varsavia e Budapest particolarmente agguerrite nel respingere il criterio delle quote di accoglienza e in generale nel confronto con la dirigenza dell’Unione. La Polonia e l’Ungheria sono le protagoniste principali dello strappo centro-orientale e vengono viste da Bruxelles come portatrici di un cattivo esempio basato sul mancato rispetto dello stato di diritto.
In entrambi i casi la risposta è fiera ed è fiera anche la rivendicazione di un’identità europea e del pieno diritto ai fondi comunitari che secondo i sostenitori del “no” alle quote non possono essere subordinati alla condizione di accettare sul proprio territorio i migranti.
(da Affari Internazionali)
* Laureato in Storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli, studioso di geopolitica dell’Europa centro-orientale e giornalista, direttore dell’Osservatorio Sociale Mitteleuropeo (OSME). Lavora tra Milano e Budapest.