di Rosa Filippini
(da l’Astrolabio – Amici della Terra)
Dice il Presidente Mattarella che la politica dovrebbe riflettere su come difendere il territorio dagli effetti dei cambiamenti climatici. Giusto. Parole sante. E misurate. Infatti, cambiamenti climatici sono certamente in corso, (comunque la si pensi sulle loro cause e intensità) ed è certo che la politica non si sia ancora occupata seriamente di difendere il territorio dai loro effetti disastrosi.
Per essere esatti, la pubblica amministrazione non è ancora in grado di difendere il territorio dai disastri naturali consueti, quelli che si ripetono periodicamente da secoli, ovvero di mettere in campo misure per attenuare gli effetti del normale maltempo autunnale, dalle nevicate invernali, della siccità estiva. Per non parlare dei terremoti, che si ripetono con certezza e senza preavviso, con effetti drammatici in un paese antico che, accanto alle recenti concentrazioni urbane, conserva e abita i centri storici.
In molti casi, la gestione della cosa pubblica aggrava gli effetti dei disastri naturali invece di attenuarli. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: i torrenti tombati nelle città costiere, le costruzioni legali e abusive accanto agli argini o nelle aree golenali, la mancata pulizia e manutenzione del reticolo irriguo, l’assenza di piani valanghe in montagna, l’abbandono dei boschi e la rinuncia ai tagli delle piante malate o pericolanti, le omesse misure antisismiche nelle nuove costruzioni e nelle ristrutturazioni… In questo 2017, non ci siamo fatti mancare nulla, nemmeno il dibattito sulle caditoie e i tombini della Capitale che si è rivelato un vero boomerang per il governo a 5 Stelle.
Nonostante i paginoni nei giorni dei disastri, gran parte dei politici e il mondo dell’informazione ritengono che questi siano problemi tecnici o minori, da lasciare agli esperti, “all’intendenza”. Nell’ultimo triennio c’è stata qualche eccezione lodevole, come il piano Casa Italia, che ha (aveva?) una prospettiva pluriennale e l’ambizione importante di mettere in sicurezza il patrimonio abitativo; come i bonus fiscali per gli interventi di ristrutturazione antisismica o come gli stanziamenti di Italia Sicura per i progetti comunali e di bacino di messa in sicurezza idrogeologica. Poco più che timidi tentativi, per un paese che, ogni anno, spende in soccorsi per le calamità ben più di quanto stanzi per la prevenzione.
Questi tentativi, tuttavia, sono spesso ignorati, non incoraggiati, non valutati. Ad essi, corrisponde un dibattito politico superficiale che preferisce assumere in modo acritico le istanze ambientaliste più popolari e allarmistiche, indipendentemente dalla loro opportunità e fattibilità (e,qualche volta, dal loro fondamento scientifico) come se si trattasse di un atto di fede. Nella sostanza, gli interessi veri dei vertici dei partiti vecchi e nuovi è quello di scaricare le responsabilità proprie e denunciare quelle altrui, in vista della più vicina scadenza elettorale.
Questi atteggiamenti si collocano in un quadro internazionale altrettanto ambiguo. Gli accordi di Parigi, con l’obiettivo del non superamento dei due gradi centigradi di crescita della temperatura dell’atmosfera terrestre, hanno completamente soppiantato, nelle politiche internazionali, europee e italiane, la necessità di adottare strategie di adattamento e di messa in sicurezza dai disastri naturali, che siano o no di origine antropica.
Ciò accade nonostante (o proprio perché) gli adattamenti comportino spese e risultati certi e misurabili e quindi politicamente impegnativi, mentre gli sforzi per mantenersi nei due gradi di crescita della temperatura sono tutt’altro che definiti e la loro adeguatezza è continuamente messa in dubbio dagli stessi fautori della teoria del riscaldamento globale antropico. Ma, contro ogni logica, gli accordi di Parigi sono diventati un dogma indiscutibile. Il rifiuto del “cattivo” Trump non ha fatto che confermare la loro immagine di sacralità: ora, tutto il mondo sa a chi potrà addebitare ogni nuovo disastro.
In un simile contesto fatto di facili allineamenti, garantito a livello nazionale e internazionale, ossequiato dall’informazione, emergono inevitabilmente gruppi di interesse pronti ad insediare lucrose nicchie in mercati artificialmente sostenuti da incentivi statali.
Così si spiega che, in Italia, si è arrivati a prelevare dalle bollette fino a 14 miliardi di euro l’anno per incentivare l’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, addirittura 16 miliardi considerando i costi indotti dall’uso delle rinnovabili non programmabili (dispacciamento ,costruzione di nuove reti), solo per finanziare con incentivi esagerati circa una metà del potenziale di energia elettrica rinnovabile, quella non programmabile.
L’altra metà, quella programmabile, affidabile, che si presta anche da sistema di accumulo, deriva, da sempre nel nostro paese, dai grandi impianti idroelettrici e non gode di alcun finanziamento, nemmeno per la costosa manutenzione .
Certo, con questo salasso delle bollette attuali e future (gli incentivi, com’è noto, sono garantiti per 20-30 anni della vita di ogni singolo impianto), abbiamo raggiunto in anticipo gli obiettivi europei di fonti rinnovabili al 2020.
Ma, insieme a quelli degli altri Stati membri, il nostro costosissimo sforzo è servito a ridurre di appena qualche punto percentuale la quota di emissioni di CO2 dell’Unione Europea, che già non supera il 10% delle emissioni globali.
E’ lecito domandarsi se un simile esborso (almeno 200 miliardi di euro in 20 anni) avrebbe avuto migliori risultati nel nostro paese, se fosse stato destinato ad altri obiettivi?
Nel campo dell’energia, si è scelto di sacrificare la promozione di politiche più efficaci e durature come quelle per l’efficienza energetica e strumenti più performanti per la nostra industria come i certificati bianchi. Con la nuova Sen, il Governo annuncia di voler continuare a privilegiare le fonti elettriche intermittenti per raggiungere l’obiettivo del 50% di energia elettrica da fonti rinnovabili . Una scelta che, fino a pochi mesi fa, numerosi ministri, compresi quelli in carica, definivano come una speculazione ingiustificabile.
Ma, per tornare al monito del Presidente della Repubblica, è appena il caso di ricordare che il costo complessivo, stimato dal Governo, per le opere giudicate indispensabili alla difesa dal rischio idrogeologico, in tutto il paese, ammonta a meno di 30 miliardi di euro.
da http://astrolabio.amicidellaterra.it