di Ernesto Galli Della Loggia
(da corriere.it)
....Dalla questione dei migranti al contenzioso con la Francia è questo il referto che ci consegna la situazione internazionale. È una condizione radicalmente nuova nella storia della Repubblica: per la prima volta dal 1948, infatti, l’Italia non può contare stabilmente né su un potente alleato — come furono per decenni gli Stati Uniti, obbligati dalla «guerra fredda» ad essere al nostro fianco qualunque cosa accadesse — né su un sistema integrato di relazioni forti nel quale tuttavia avere una qualche influenza, com’è stato fino all’altro ieri con l’Unione Europea. Nella quale invece contiamo sempre meno mentre sempre più essa si va trasformando nei nostri confronti in una sorta di potenza tutoria non proprio benevola.
Ormai da tempo l’Italia è sola, dunque. E la sua politica estera è costretta a fare i conti con la storia irrisolta del Paese. Nel corso della prima metà del Novecento, fino alla sconfitta del ’40-45, quando ci si poteva ancora illudere che il mondo fosse l’Europa, abbiamo pensato di poterci muovere come l’ultima delle grandi potenze o la prima delle medio-piccole: quella che comunque con il suo schierarsi astutamente, e magari all’ultimo momento, da una parte o dall’altra, era in grado di determinare il successo di uno o dell’altro schieramento(da qui il nostro non casuale ingresso nelle due guerre mondiali sempre parecchio tempo dopo che erano iniziate).
Su questa linea, sicuri peraltro della nostra rilevanza e della necessità di affermazione nazionale, non abbiamo cessato di nutrire sogni di grandezza quasi sempre pateticamente smisurati: e quindi finiti come dovevano finire. Dopo il ‘45 la via dell’alleanza occidentale e dell’integrazione europea è stata naturalmente una scelta obbligata. Ma essa è servita a coprire un vuoto: il vuoto apertosi con la sconfitta, che non è stata una semplice sconfitta militare ma ha significato il ridimensionamento brutale dell’intera autorappresentazione nazionale formatasi dall’Unità in avanti.
Si è trattato di un vuoto che la democrazia repubblicana non è stata capace di colmare. Sempre più convinti a sproposito della presunta assoluta inattualità dell’idea di nazione (si provino gli illustri membri dell’Ispi o dell’Aspen a organizzare un seminario su tale inattualità a Parigi o a Berlino: si provino, si provino), non siamo stati capaci di rifare a noi stessi un’immagine del Paese da spendere e affermare nelle relazioni internazionali, di disegnare una mappa plausibile, e soprattutto condivisa, dei nostri interessi vitali, e di crederci davvero. Magari accettando l’idea che tali interessi andavano perseguiti anche con l’inevitabile dose di spregiudicatezza. Invece niente: quando si tratta dell’Italia l’impressione è che ad essere spregiudicati sono sempre gli altri.
Troppo spesso in un mondo popolato di lupi confessi e di lupi travestiti da agnelli abbiamo pensato che fare la parte degli agnelli autentici equivalesse ad avere una politica. D’altronde come si fa ad essere spregiudicati e cattivi se non si hanno le idee chiare su ciò che si vuole? Da troppo tempo alla nostra diplomazia nessuno sa dire a che cosa debba, possa o voglia servire l’Italia. Senza dire che il nostro ruolo internazionale continua a scontare tre handicap micidiali ma ormai accettati quasi fatalisticamente...
- prosegui la lettura su corriere.it