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18/11/24 ore

Il giro di vite all’italiana: nuovi reati inapplicabili



di Carlo Nordio (da Il Messaggero)

 

La legge sull’introduzione del reato di tortura, approvata ieri sera in via definitiva alla Camera, si inserisce in quel filone di velleitario attivismo con cui il legislatore tende ad affrontare vecchi problemi con provvedimenti ispirati dalla convenienza contingente.

 

Questa deplorevole attitudine, peraltro comune ai governi degli ultimi trent’anni, sta assumendo ora dimensioni quasi grottesche, con una proliferazione normativa caotica e scoordinata, che moltiplicando le incertezze interpretative ne consolida le difficoltà di applicazione.

 

I numerosi esempi di riforme fallite – fallite nel senso che alla fine non hanno minimamente raggiunto gli obiettivi solennemente celebrati – non hanno insegnato nulla. Nuovi reati sono stati introdotti, con la previsione di ulteriori aumenti di pene; le garanzie costituzionali sono state vieppiù avvilite, e siamo sempre lì. Dopo il giro di vite sulla corruzione, l’omicidio stradale, il femminicidio, le misure antimafia, eccetera eccetera, i delitti non diminuiscono, e l’insicurezza aumenta. La risposta? L’introduzione del reato di tortura.

 

Intendiamoci. In quanto tale, la tortura è una delle forme più abiette della cattiveria umana. Ha radici profonde, e talvolta è stata giustificata da ragioni politiche e persino da ragioni religiose.

 

Come strumento di indagine, dopo essere stata adottata equamente da tutti gli stati, dai tempi di Lugalzaggisi, re di Uruk, fino alla quarta repubblica francese in Algeria, è quasi scomparsa nei Paesi democratici. Quasi. Perché purtroppo, di tanto in tanto, emergono casi di sciagurata violenza intimidatrice. Anche in Europa. Anche da noi.

 

Essa è stata tuttavia ridotta, se non sradicata, non dalla minaccia della sanzione penale, ma da un’opera continua e benemerita di riflessione e di umanizzazione della politica criminale. Se ne rimane un residuo, essa costituisce l’eccezione, non la regola. In Italia, per di più, una nuova cultura della polizia giudiziaria, un vigile controllo della magistratura, e più in generale il ripudio sincero dell’opinione pubblica anche di fronte ai delitti più cruenti ed infami, hanno ridotto il fenomeno a livelli trascurabili.

 

Ora questa legge complica le cose. Perché, essendo, o almeno apparendo un messaggio ostile alle forze dell’ordine, ne mina la serenità e la fiducia nello Stato. Uno Stato che già le strapazza con il centellinamento delle risorse e l’imposizione di compiti sovrumani, ed ora le umilia con una manifestazione di diffidenza. Per di più essa non soddisfa nemmeno le possibili vittime. La sua formulazione è infatti, secondo la peggiore tradizione, tanto altisonante e verbosa quanto vaga e indeterminata.

 

E poiché il principio di tassatività è un cardine del diritto penale, questa volatilità ne renderà difficile l’applicazione in sede processuale. Peggio. Essa consentirà una valanga di denunce e di indagini contro polizia e carabinieri, con la conseguente spedizione di informazioni di garanzia e iscrizioni nel registro degli indagati, ma renderà difficile l’accertamento delle singole responsabilità nel caso - Dio non voglia - di abusi da parte di chi veste la divisa. Come tante altre leggi, essa finirà su un binario morto, in attesa che il treno della giustizia, già rallentato da questa dissennata produzione normativa, la scarichi tra i rottami.

 

© Il Messaggero (Giovedì 6 Luglio 2017)

 

 


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