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17/11/24 ore

Se cala la fiducia nella magistratura



di Giovanni Verde (da Il Mattino)

 

Il recente sondaggio di Swg sulla magistratura impone alcune riflessioni. I magistrati e la politica: il 68 % degli intervistati è convinta che «certi settori della magistratura italiana perseguono obiettivi politici». La risposta sconta gli effetti di una domanda riguardante il rapporto tra magistratura e politica che merita di essere precisata. È oramai tramontato il periodo vissuto negli anni Settanta, allorquando molti teorizzarono un uso politico della giustizia (e una corrente della Magistratura condivise l’idea).

 

Finita, sul finire degli anni Ottanta, anche la «conventio ad excludendum» nei confronti del partito comunista (soprattutto dopo la caduta di Berlino), la Dc (a partire dagli anni Ottanta con il Psi) ha cessato, per così dire, di essere il bersaglio di quella parte della magistratura che vedeva nel patto (a sua opinione, scellerato) tra Dc e Psi la radice dei mali italiani. All’epoca era giusto pensare che la magistratura o una sua parte perseguisse obiettivi politici (e molti di noi hanno il ricordo di eminenti personalità del partito comunista che avevano la mappa delle Procure e lavoravano di concerto con alcuni esponenti della magistratura per favorire alcune nomine).



Oggi il clima è mutato. La liquefazione dei partiti tradizionali, la difficoltà di collegare i movimenti che si agitano nel Paese a precise ideologie, una qualche alternanza nel governo non solo dello Stato, ma anche delle Regioni e degli enti locali impediscono di individuare un preciso obiettivo politico. Il problema, attualmente, si è spostato: di sicuro il singolo magistrato è portatore di una sua ideologia che lo guida nelle sue scelte (che, per ciò che riguarda il p.m., si evidenziano soprattutto nell’esercizio del potere di indagine, che è e non può non essere discrezionale), ma la sua azione non è politica, ma di controllo del potere e di chi lo gestisce al fine di stabilire che l’esercizio sia corretto. E questa azione è del tutto naturale e doverosa.



Oggi la questione è quella dei limiti. Ossia dobbiamo chiederci fino a quale punto si può spingere il controllo della magistratura ed il disorientamento della pubblica opinione è da ricollegare ad una invasiva attività di indagine delle Procure collegata a fattispecie di reato dai confini troppo mobili e liquidi che si prestano ad interpretazione dove troppo spesso il disvalore etico prevale su quello strettamente giuridico (fenomeno che attualmente si estende anche al campo della responsabilità civile e amminisrativa-contabile). I magistrati e la politica. Il 72% degli intervistati ritiene che i magistrati non dovrebbero fare politica e il 62 % che, comunque, sarebbe meglio se a fine mandato non indossassero nuovamente la toga.



Qui si annida un equivoco. Il magistrato è un uomo e, in quanto tale, non può non avere una sua ideologia politica. Ciò che i cittadini respingono è il legame che può determinarsi tra il magistrato che svolge attività politica o che intende svolgere attività politica e il partito o il movimento politico di riferimento, in quanto lo stesso si traduce in un inevitabile condizionamento. In sostanza, il cittadino teme che il magistrato legato alla politica, nell’esercizio della sua doverosa attività di controllo del potere, sia influenzato da scelte partitiche nella prospettiva di carriera politica o di altre utilità. Poiché la Costituzione garantisce anche al magistrato il diritto di elettorato passivo, il problema è quello di stabilire limiti ragionevoli alla sua possibilità di candidarsi e limiti altrettanto ragionevoli al suo reinserimento nei ruoli della magistratura allorquando cessi il suo mandato.



Ma la vera soluzione sarebbe quella per la quale i partiti o i movimenti si dessero, per statuto, la regola di non candidare magistrati in qualsiasi competizione elettorale. In questo modo si eviterebbe il sospetto diffuso che molti magistrati (guarda caso, quasi sempre pubblici ministeri) ispirino la loro azione a fini (non politici, ma) di carriera politica. I magistrati, la corruzione e la diffusione di notizie. Gli italiani, qui, vogliono tutto e il suo contrario. La pubblicazione delle indagini per il 50% degli intervistati andrebbe vietata, ma per il 70% gli ascolti vanno usati anche a costo di sacrificare la privacy. Ma gli italiani ben sanno che l’Italia è il paese di Pulcinella, per cui è assai difficile tenere riservata una notizia, una volta acquisita.



Di conseguenza, sono disposti a scontare il rischio che la privacy sia violata (anche perché l’intervistato, quando risponde alla domanda, pensa alla privacy degli altri). E’ probabile che questo atteggiamento sia influenzato dall’idea che il nostro malanno maggiore sia la dilagante corruzione, così che c’è un plebiscito (l’81%) che chiede un (ulteriore) inasprimento delle pene. Qui il discorso si fa lungo. Gli italiani sono assordati dalla miriade di novelli «Saint Just» che della denuncia hanno fatto una (lucrosa) professione e finiscono con il condividere posizioni del tutto giustizialiste (quando la questione riguarda gli altri).



Essi vogliono curare una malattia, che non li coinvolge. Al contrario, si tratta di una malattia che andrebbe prevenuta per quanto è possibile. A tal fine, dovremmo cominciare a farci un esame di coscienza collettivo per capire quali sono le ragioni per le quali il nostro Paese sia terreno di cultura della corruzione (anche se sono convinto che non siamo tanto peggiori degli altri). E, a mio modo di vedere, un Paese che ha distrutto il merito, in ogni campo (nella scuola, nel lavoro, nelle professioni, nell’impresa e, persino, nella politica) non può aspirare, per definizione, a comportamenti collettivi di esemplare correttezza.

 

Il voto finale. I magistrati pagano il prezzo dell’attuale evoluzione con una caduta di credibilità. Soltanto il 44% degli intervistati nutre fiducia nella magistratura. È il dato più preoccupante, perché una sana democrazia ha bisogno di una magistratura credibile. Le statistiche, con la fredda logica dei numeri, ci forniscono un insegnamento. C’è qualcosa nel nostro sistema di giustizia che non va, ma una riforma della giustizia presuppone che gli italiani smettano, una buona volta, di pensare che i nostri problemi possano essere risolti dai giudici e, prima ancora, che smettano di atteggiarsi, essi, a implacabili giudici degli altri. 

 

© da Il Mattino (Giovedì 20 Aprile 2017)

 

 


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