È arrivato il momento di prendere il Movimento 5 Stelle (e i suoi alleati globali) sul serio: i due volti del populismo e cosa fare da qui in poi.
di Giuliano da Empoli
Livorno è una città importante, nella storia della sinistra italiana. Qui si è prodotta, nel 1921, la scissione che ha dato vita al Partito Comunista Italiano. E qui, ottant’anni dopo, si sono incontrati per la prima volta Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, in una scena inaugurale – l’incontro tra l’animale da palcoscenico, poderoso ma incerto sulla direzione da dare alla sua rabbia primordiale e l’algido nerd digitale, visionario ma un po’ sperduto nel mondo reale – che è entrata a far parte della mitologia del “movimento”.
Mi direte che ho perso il senso delle proporzioni, se metto a confronto un evento capitale come la nascita del partito fondato da Gramsci con i primi vagiti di un movimento la cui massima espressione culturale è stata finora l’autobiografia di Di Battista. Può darsi. Ma il punto è che è arrivato il momento di prendere sul serio il Movimento 5 Stelle.
Ci siamo illusi per troppo tempo che si trattasse di un fenomeno residuale, destinato prima o poi ad essere riassorbito, magari anche grazie all’avvento di una nuova generazione capace di spezzare l’incantesimo paralizzante del ventennio berlusconiano. Abbiamo anche pensato che esistesse un soffitto di cristallo, oltre il quale il partito del vaffa non potesse andare. Ma ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti e in giro per l’Europa dimostra che i soffitti di cristallo che impedivano ai demagoghi più sfacciati di arrivare al potere sono stati infranti dappertutto. E l’ipotesi che i 5 stelle possano un giorno, davvero, assumere la guida del governo dell’Italia non appartiene più al regno della fantascienza.
La verità è che, proprio come il PCI del secolo scorso, il M5S è parte di un movimento globale, che sta cambiando il volto delle democrazie liberali dell’occidente. In un libro di alcuni anni fa, Peter Sloterdijk ha ricostruito la storia politica della rabbia. La tesi è che si tratti di un sentimento insopprimibile, che attraversa tutte le società, alimentato da coloro i quali, a torto o a ragione, ritengono di non avere abbastanza, di essere esclusi, discriminati o poco ascoltati. Storicamente in occidente è stata la Chiesa a dare uno sbocco a questa enorme accumulazione di rabbia e poi, a partire dalla fine dell’ottocento, i partiti della sinistra. Che hanno svolto, secondo Sloterdijk, la funzione di “banche della collera”, accumulando energie che, anziché essere spese nel momento, potevano essere investite per costruire un progetto più grande. Esercizio non facile, in quanto si trattava da una parte di attizzare costantemente l’odio e il risentimento e dall’altra di controllarli, in modo che non venissero sprecati in episodi individuali, bensì servissero alla realizzazione del piano generale. In base a questo schema, il perdente si trasformava in militante e la sua rabbia trovava uno sbocco politico.
Oggi, dice Sloterdijk, nessuno gestisce più la collera accumulata negli uomini. Né la religione cattolica – che ha dovuto abbandonare i toni apocalittici, il giudizio universale e la rivincita dei perdenti nell’aldilà per andare d’accordo con la modernità – né la sinistra – che, in misura prevalente, si è riconciliata con i principi della democrazia liberale e le regole del mercato. Il risultato è che la collera ha assunto, all’inizio del XXI secolo, forme sempre più disorganizzate, dai movimenti no global alla rivolta delle banlieues.
A dieci anni dalla pubblicazione del saggio di Sloterdijk è ormai chiaro che le forze della rabbia si sono riorganizzate, trovando espressione nella galassia dei nuovi nazionalismi che, dall’Europa dell’Est agli Stati Uniti, passando per la Francia di Marine Le Pen e l’Olanda di Geert Wilders, hanno assunto un ruolo sempre più dominante sulla scena politica dei loro rispettivi paesi.
Google applicato alla politica
In Italia è un tema che conosciamo bene. La rabbia anti-establishment che altri stanno scoprendo solo adesso, è da noi la principale motivazione del voto da oltre un quarto di secolo. Ed è per questa ragione che ci siamo trasformati, dal 1992, in un eccezionale laboratorio politico che ha sperimentato più o meno tutte le forme di populismo concepibili dalla mente umana. Dal populismo regionalista della Lega a quello giudiziario di Di Pietro, fino all’apoteosi catodica del populismo plutocratico del Cavaliere. Molti di questi esperimenti li abbiamo poi esportati con successo (come dimostra l’elezione del 45° Presidente degli Stati Uniti d’America).
Da alcuni anni, però, la rabbia ha assunto da noi una forma politica che gli altri paesi dell’occidente ancora non conoscono. La forza del Movimento 5 Stelle si basa sull’unione paritaria di due componenti, quella analogica e quella digitale, che non avevano mai trovato prima d’ora una sintesi politica così micidiale (ben descritta dal collettivo Obsolete Capitalism nei loro pamphlet sulla nascita del populismo digitale). Da una parte, la componente analogica, incarnata dalla fisicità prorompente di Beppe Grillo, dà al movimento il suo calore e la sua passione. E’ una proposta politica formattata per l’era dei reality show, la stessa che ha portato Trump al potere negli Usa. Il trionfo dell’uomo comune messo al centro della scena, la presa del potere da parte dello spettatore sovrano che partecipa, decide e sanziona, il rigetto delle élites e la dittatura dello streaming: come ha visto Andrea Minuz, è nel pantheon dei reality che vanno cercati i miti fondatori dei grillini. E non è certo un caso che dietro le quinte ci sia Rocco Casalino, tra i protagonisti della prima edizione del Grande Fratello, oggi portavoce e responsabile della comunicazione del M5S.
Tendendo l’orecchio, però, dietro questa facciata spettacolare si avverte il mormorio dei server della Casaleggio & Associati: una macchina discreta e sofisticata, della quale solo ora stiamo cominciando a scoprire la vera potenza. Al contrario di quanto avvenga altrove, non si tratta di una semplice sovrastruttura, appiccicata alla meno peggio su un apparato organizzativo e comunicativo preesistente, ma di uno scheletro interamente nuovo: la piattaforma digitale non è solo un luogo di comunicazione, ma la fonte primaria dell’identità e dell’appartenenza al Movimento.
Da genio del marketing qual era, Gianroberto Casaleggio ha capito molti anni fa che internet avrebbe rivoluzionato la politica, rendendo possibile un movimento di tipo nuovo, guidato dalle preferenze degli elettori-consumatori come non era mai stato possibile prima di allora. Ma si è anche reso conto del fatto che, da sola, la dimensione digitale era ancora troppo fredda e distante per dare vita ad un vero movimento di massa nel nostro Paese. Per questo ha cercato – e massicciamente investito sulla componente analogica che ha il volto di Beppe Grillo.
La forza e la resilienza del M5S, provengono dunque da questa combinazione: il populismo tradizionale che si sposa con l’algoritmo e partorisce una vera e propria macchina da guerra, per nulla gioiosa, ma tremendamente efficace. In particolare, questo dispositivo possiede due caratteristiche dirompenti rispetto al sistema politico esistente. Primo: il M5S ha una vocazione esplicitamente totalitaria. Nel senso che ambisce a rappresentare non una parte, ma la totalità del “popolo”. Casaleggio Senior non ha concepito il suo movimento come un partito destinato a inserirsi nel gioco – a suo avviso superato – della democrazia rappresentativa, bensì come un veicolo destinato a traghettarci verso un nuovo regime politico: la democrazia diretta dove i rappresentanti dei cittadini spariscono perché sono i cittadini stessi a prendere tutte le decisioni attraverso un processo di consultazione online permanente esteso a tutti gli ambiti della vita sociale. Secondo: proprio in virtù della sua ambizione totalitaria, il M5S non funziona come un movimento tradizionale, ma come il Page Rank di Google. Non ha cioè una visione, un programma, un qualsiasi contenuto positivo. E’ un semplice algoritmo costruito per intercettare il consenso sulla base dei temi che tirano. Per questo, se l’immigrazione è un tema forte, Grillo lo cavalca e adotta la posizione più popolare, cioè una postura proto-leghista. Lo stesso vale per l’euro, le banche e qualsiasi altro tema di attualità. Se su uno qualunque di questi temi l’opinione pubblica dovesse evolvere in senso contrario, il M5S cambierebbe posizione (come è già accaduto più volte) senza il minimo imbarazzo.
La macchina del Movimento è la traduzione politica di Google. Intercetta le preferenze degli utenti e dà loro esattamente quello che vogliono. Per questo le polemiche su Grillo e Casaleggio che alla fine decidono tutto, in contrasto con la natura teoricamente democratica del movimento, lasciano il tempo che trovano. Perché Grillo e Casaleggio in realtà decidono sulla base dei big data, e si limitano a dare una raddrizzata quando quegli sciamannati dei loro dirigenti/aderenti rischiano di farli finire fuori strada.
Tre tentazioni a cui resistere
Se si analizzano questi elementi, anziché fermarsi alla cortina fumogena dei vaffanculo e delle scie chimiche, si vede che il M5S rappresenta una sfida radicale non solo per il PD e per la sinistra, ma per la democrazia parlamentare quale la conosciamo e la pratichiamo da settant’anni (altro che referendum del 4 dicembre…)...
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