di Venanzio Postiglione (corriere.it)
Sono passati pochi giorni. Solo pochi giorni. E il partito è cambiato. I Cinque Stelle hanno messo lì, in un angolo, un po’ nascosto, il governo delle città e si sono tuffati nel mondo conosciuto (e più comodo) della protesta di fuoco, dove si possono tenere assieme il possibile e l’impossibile, l’Europa e la lira, il bilancio e le spese, la scienza e la profezia. Un ritorno alle origini che serve a recuperare la purezza perduta o, più banalmente, ad accontentare le anime nobili e le anime in pena, l’ansia di provarci e la paura che poi succeda. «Il complotto per farci vincere», come da (surreale e geniale) intuizione di Paola Taverna, resta la frase dell’anno e difficilmente sarà superata di qui alla fine del 2016.
Il 20 giugno sembrava la data chiave. Raggi e Appendino elette a Roma e Torino: giovani, donne, una svolta non solo politica. Un leader trentenne, Luigi Di Maio, lanciato verso Palazzo Chigi. Un capo storico, Beppe Grillo, che aveva annunciato al Corriere «il passo di lato»: anche perché il suo non trionfo delle Europee assomigliava troppo alla non vittoria di Bersani alle Politiche. E poi? E poi Raggi è salita al Campidoglio, ha visto il balcone che si affaccia sui Fori e sulla mutevole storia di Roma, ha conosciuto i veleni dei compagni di banco, ha accarezzato e subito scacciato l’Olimpiade. Tanti passi che possono apparire incredibili per chi guarda dall’esterno e che invece hanno il sapore dell’inevitabile per chi conosce il magma dei siti amici o anche solo vicini.
Il web del nostro scontento è il motore della protesta e forse la condanna della governabilità: si poteva immaginare. E arriva un’altra data, il 20 settembre. Una mozione dei Cinque Stelle sulla legge elettorale chiede la scomparsa dell’Italicum e il ritorno al proporzionale. Per chi sopravvive alla sorpresa ecco la conferma di Andrea Cecconi, il capo del Movimento alla Camera: «Torniamo alla Prima Repubblica? E allora? Io non la rimpiango, ma dopo la guerra il nostro Paese è diventato uno dei più grandi del mondo». Il giro è completo. Dopo che per mesi i maestri dei flussi ci hanno raccontato che l’Italicum, con il ballottaggio e un vincitore netto, avrebbe favorito la corsa di M5S e Di Maio, i Cinque Stelle cancellano l’Italicum e forse anche Di Maio. L’opportunità di vincere senza l’obbligo di governare. Dalla decrescita felice all’opposizione felice. Se può avere senso per Grillo, ha meno senso per chi vota e per chi viene scelto: un partito che sta decidendo di non giocare, anche se rappresenta un elettore su quattro o di più…
La festa di Palermo, poi, l’ha chiarito. Grillo è tornato il capo, il Direttorio si è perso per strada, i nuovi leader non sono né sconfessati né rilanciati. Largo ai «vecchi». Roberta Lombardi l’ha pure detto: «Ci sono quelli che sono arrivati prima del 2012, cioè la vittoria di Parma, e quelli arrivati dopo». Eccolo, il mito delle origini. Quando Bossi nel ’96 doveva farsi perdonare la stagione del governo, da Berlusconi a Dini, salì sul Monviso a raccogliere l’acqua del Po: una sorta di rito pagano, ma soprattutto catartico, che rafforzò la scelta di presentarsi da solo, prendere tanti voti e andarsene all’opposizione. L’ampolla di Bossi come, adesso, la piattaforma «Rousseau» che tutto assorbe e ripulisce.
Raggi governerà sempre più come Raggi e sempre meno come Cinque Stelle. Il Movimento potrà dedicarsi alle nuove regole sulle espulsioni e alla battaglia per il proporzionale. L’obiettivo non sarà Palazzo Chigi ma una nobile protesta, sperando che a governare vadano tutti gli altri e magari tutti assieme, abbracciati in un nuovo Nazareno. Il vincitore non si conoscerà il giorno dopo il voto ma addirittura il giorno prima e si griderà all’inciucio nelle piazze e il Movimento resterà forte e puro. Ora che l’hanno provato, «il complotto per farci vincere» non passerà più.
da Corriere della Sera (martedì 27 settembre 2016)