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16/11/24 ore

Politica e giurisdizione, Il poco mite Zagrebelsky



 di Marco Olivetti

 

Quello fra politica e giurisdizione è forse il principale conflitto che attraversa le democrazie liberali contemporanee. Mentre per il costituzionalismo post-rivoluzionario francese il giudiziario, sulla scorta di Montesquieu, era inteso come un potere nullo, pallido contraltare rispetto alla legge (espressione della volontà generale e della sovranità popolare), il secondo dopoguerra ha visto un forte arretramento della legislazione e della politica rispetto alla giurisdizione.

 

Vari fattori hanno spinto in questa direzione: dall’affermazione della rigidità costituzionale e del controllo di costituzionalità delle leggi a forme molto avanzate di autogoverno della magistratura, dal ruolo svolto dai giudici nel quadro dell’integrazione europea e del diritto internazionale regionale (Convenzione europea dei diritti dell’uomo) alla frammentazione delle domande sociali che la legge e la politica non riescono più a mediare.

 

Così il diritto legislativo ha arretrato inesorabilmente a vantaggio di quello giurisprudenziale: la crisi di legittimità della politica ha indotto molti attori sociali a cercare solo nella giurisdizione, indipendentemente, spesso, dalla legge, la risposta a istanze che la politica tardava a disciplinare. L’avanzamento della giurisdizione è oggi un dato costituzionale globale, al punto che non è mancato chi ha ragionato di un “governo dei giuristi” (Ran Hirschl, nel saggio Towards Juristocracy).

 

Nella vicenda italiana il dominio del positivismo giuridico ha a lungo attutito queste tendenze. All’inizio degli anni ‘70, però, in corrispondenza con l’avvento in magistratura di una nuova generazione di giudici, per lo più di estrema sinistra, è stato invocato un “uso alternativo del diritto”, da intendersi come via di trasformazione della società, facendo leva sulle contraddizioni della legislazione e tentando di applicare direttamente la Costituzione (o, meglio, alcune interpretazioni radicali di essa, di solito imperniate sulla “rivoluzione promessa” dell’eguaglianza sostanziale).

 

Ma è solo negli anni ’90 che – anche a fronte dell’esaurimento dei partiti politici nati dalla Resistenza e della torsione maggioritaria del sistema costituzionale – buona parte della cultura giuridica italiana ha abbandonato il positivismo giuridico e la centralità della legge per abbracciare un altro modo di concepire il diritto, molto più legato al caso concreto e alle concezioni della giustizia proprie delle parti di quel caso, e del singolo giudice.

 

Il profeta di questa nuova stagione è stato Gustavo Zagrebelsky, con il suo noto saggio sul “diritto mite”, che dovrebbe appunto essere un diritto meno rigido, meno generale e astratto, e più casistico, più legato ai valori che emergono nella concreta realtà che i giudici si trovano davanti.

 

Il ventennio trascorso da allora ha offerto il contesto ideale per sviluppare questa visione del diritto, in cui la legislazione democratica ha un posto in fondo marginale: la lunga stagione berlusconiana ha indotto la cultura giuridica e la sinistra politica a cercare nella magistratura una sponda per fermare gli abusi segnati dalle numerose leggi ad personam spesso eversive dello stato di diritto, che hanno caratterizzato questo tempo.

 

E la crisi profonda della politica che è seguita alla fine del berlusconismo ha offerto ragioni ulteriori per vedere nella giustizia il potere cui affidare l’ultima parola nei complessi conflitti che attraversano la nostra società...

 

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