di Giorgio Musso
(da AffarInternazionali)
Quanto sta accadendo lungo il Nilo non si presta a facili letture e gli analisti brancolano tra golpe popolare, colpo di stato, sollevazione popolare e rivoluzione. Mai come in quest’occasione le consuete categorie della scienza politica si rivelano inadeguate.
A Washington e nelle capitali europee si è evitato il termine golpe, preferendo “impeachment popolare” o “golpe rivoluzionario”, a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, dell’ambiguità della situazione. Per gli Stati Uniti trovare una definizione appropriata è un problema ancora più spinoso.
Una legge obbliga, infatti, l’amministrazione americana a sospendere ogni forma di aiuto non-umanitario a un governo salito al potere con un colpo di stato. Nello specifico caso egiziano, ciò avrebbe portato al congelamento di aiuti per un ammontare di un miliardo e mezzo di dollari l’anno, l’85% dei quali destinato a coprire il 20% del bilancio dell’esercito.
Temendo per la stabilità del paese e in virtù del suo saldissimo rapporto con le forze armate, Washington ha evitato di far scattare la clausola citata, ma ha chiesto il rapido ritorno a una transizione democratica gestita da istituzioni civili.
Secondo buona parte dei manifestanti egiziani, gli Stati Uniti sarebbero stati i principali alleati dei Fratelli Musulmani, contribuendo a rallentarne la caduta, ma la realtà è più complessa. Effettivamente nel corso dell’ultimo anno vi è stata da parte dell’amministrazione statunitense un’apertura ufficiale di credito verso la democrazia di stampo islamista incarnata dai Fratelli musulmani.
Allo stesso tempo, si è forse dimenticato troppo in fretta la frase con cui Barak Obama gelò Mohammed Mursi all’indomani delle manifestazioni anti-americane del settembre 2012: “L’Egitto non un alleato, ma nemmeno un nemico”...
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