Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

22/05/25 ore

Il 'mito' della violenza alimentato dall’odio del pregiudizio. Il libro di Giuseppe Culicchia su Sergio Ramelli


  • Luigi O. Rintallo

Ci voleva un narratore per darci un racconto onesto e veritiero sugli “anni di piombo”. Meglio di tanti intellettuali o politici, affezionati ai propri preconcetti o avvelenati dal pregiudizio fazioso, Giuseppe Culicchia con Uccidere un fascista (Mondadori, pp. 235; 2025) ha scritto un libro che non descrive soltanto la violenza politica di quel periodo, ma ricostruisce pure il contesto dal quale scaturì e le ragioni profonde per cui il nostro Paese è attraversato da una lacerazione interna che impedisce il pieno dispiegarsi di una democrazia matura.

 

Scegliendo di narrare la storia di Sergio Ramelli, il diciottenne del MSI ucciso a sprangate da alcuni militanti di Avanguardia Operaia nel 1975 a Milano, l’autore ha trattato una vicenda che ha infatti la singolare particolarità di contenere fattori che segnalano le assolute anomalie con le quali l’Italia ha da fare i conti ancora oggi, a cinquant’anni da quell’episodio della spirale di sangue snodatasi per oltre un ventennio dal ’68. 

 

1)  Innanzi tutto, la causa scatenante del delitto: un odio cieco e implacabile contro un ragazzo, a causa della sua diversità di idee politiche. Come recita il sottotitolo del volume, quella di Sergio Ramelli fu “una vita spezzata dall’odio”. All’origine di questo odio ci sono le stesse radici violente che hanno dato luogo alla Repubblica, come denunciava già nel 1979 il leader radicale Marco Pannella nel corso dell’arroventata polemica sulla “inutile strage” compiuta dai partigiani comunisti a Via Rasella il 23 marzo 1944. 

 

Dal punto di vista radicale, aver fondato il nuovo Stato sul mito resistenziale di quell’attentato ne minava irrimediabilmente la credibilità, perché instaurava una continuità tra regime fascista e Repubblica cucita con il filo rosso del sangue e della violenza. Di opinione opposta, i suoi apologeti vi vedevano invece il modo per occultare l’equivoco di fondo cresciuto attorno all’anti-fascismo, riassumibile nell’assioma per cui tutti i democratici sono anti-fascisti, ma non tutti gli anti-fascisti sono democratici. Per i comunisti, via Rasella era il simbolo cogente e necessario per un’abile manipolazione culturale, volta a presentare il loro anti-fascismo come sinonimo tout court di quella democrazia che in realtà ripudiavano.

 

L’ “anti-fascismo militante” professato da Avanguardia Operaia nel 1975 muoveva dalla convinzione assoluta che i fascisti fossero delle non-persone, da discriminare e vessare proprio per le loro idee politiche sino al punto di coniare il famigerato slogan “uccidere un fascista non è reato”. Tali posizioni furono indirettamente favorite anche da un caso ante litteram di interferenza della magistratura sulla politica, quando il procuratore Luigi Bianchi D’Espinosa promosse con le sue dichiarazioni la messa al bando del MSI di Giorgio Almirante, ottenendo l’effetto di spingere all’estremismo fanatico tanti giovani di destra e sinistra.  

 

Dopo mesi di accanita persecuzione, conclusasi col ritiro dall’istituto Molinari che Ramelli frequentava, quel giovedì 13 marzo 1975 gli assassini calano sul suo capo le loro chiavi inglesi Hazet 36 e nel farlo essi immaginavano di ricalcare le imprese compiute dai partigiani nel 1944-45. Con la non lieve differenza che il loro bersaglio è solo e disarmato. Viltà che non li abbandona nemmeno dopo i quarantasei giorni di coma terminati con la morte di Sergio Ramelli il 29 aprile, tant’è che nessuno si costituisce forti della copertura e dell’omertà non solo dell’organizzazione Avanguardia Operaia, ma della più vasta area del sovversivismo di sinistra che imperversava allora a Milano.

 

Di agguati come quello subito da Sergio Ramelli, Culicchia scrive che fra il 1972 e il 1977 a Milano ce ne furono 140, con lesioni provocate dall’uso di chiavi inglesi che solo per miracolo non risultarono letali. La pericolosità di una situazione dove si registrava la militarizzazione di migliaia di giovani estremisti fu segnalata sin dal dicembre 1970 dal prefetto milanese Libero Mazza, in un documento che rimase ignorato dai suoi superiori e liquidato come irresponsabile allarmismo su gran parte della stampa. Come rilevato in nota nel libro, il clima che cominciò a respirarsi nel Paese era quello di una guerra civile strisciante: la terza, secondo Culicchia, dopo una prima fase che iniziò col Biennio rosso nel 1919, portando infine alla Marcia su Roma, e la seconda conclusasi nella primavera del 1945 quando – a guerra terminata – avvenne “la maggior parte dei morti fascisti”.

 

Sergio Ramelli è una delle di vittime di questa lunga terza guerra civile, che per l’autore prende avvio dalla bomba alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Sin da subito, “ben prima dell’esito dei relativi processi” come scrive Culicchia, a sinistra la strage è colpa dei “fasci” e basta questo per replicare “le dinamiche del conflitto fratricida” di trent’anni prima. Chiedersi a cosa sia servito questo conflitto intestino, che comportò il sacrificio di centinaia di vite, conduce inevitabilmente a considerare i condizionamenti che ha esercitato sulla politica e sulle istituzioni del Paese.

 

2Gianluigi Melega, in una intervista del documentario Milano burning (di Paolo Bussagli; 2012) utilizzato ampiamente da Culicchia, rileva come gli atti di violenza politica “ebbero un’influenza enorme sulla vita politica in Italia, perché costrinsero i diversi movimenti politici – sia di destra che di sinistra e di centro – a prendere delle posizioni che non sarebbero state prese se non ci fossero stati quegli atti”. E prosegue: “la violenza ha colpito veramente a 360 gradi e quindi è difficile individuare una radice… Possiamo dire che gli apparati dello Stato non sono stati così rigorosi nel perseguire i violenti e nel fare sì che si scoraggiassero questi atti di violenza. Certe posizioni di governo o di burocrazia governativa hanno sfruttato gli elementi violenti di tutte le parti”.

 

Se è impossibile affermare ci sia stato un piano deliberato per alimentare la violenza politica, è altrettanto impossibile negare come in quegli anni vi sia stata una sua utilizzazione allo scopo di interpretare la consociazione compromissoria come la via obbligata per il governo dell’Italia. La scia di sangue protrattasi per oltre due decenni contribuisce a soffocare ogni idea di cambiamento e impone la percezione che qualunque processo di trasformazione o alternativa vada respinto. Massimalismi e conservatorismi convergono così per collocare il Paese in una palude bloccante, nella quale vengono necrotizzati i vitali innesti che provenivano dalla lotta per i diritti civili della fine degli anni ’60.

 

In una Italia votata alla subalternità derivante dall’ordine di Jalta, “in cui – come scrive Culicchia – alla DC spettava la conduzione politica e al PCI il controllo delle dinamiche sociali, nel momento in cui si paventò la possibilità di una ‘democrazia dell’alternanza’… alcune forze che erano della politica e della società, degli apparati dello Stato e dei Servizi sia italiani sia stranieri, si adoperarono perché tale processo venisse bloccato”. Va aggiunto che la stessa strategia del “compromesso storico” promossa dal PCI berlingueriano risultò funzionale alla manovra del blocco sociale al potere, interessato a soffocare ogni cambiamento, giudicato rischioso per la salvaguardia di interessi consolidati. 

 

Da parte dei fautori del continuismo si determina una duplice dialettica con l’estremismo violento. Da un lato, permettevano a quest’ultimo di raccogliere adepti in quell’area di scontento e di marginalità che inevitabilmente si crea quando trionfa una “cappa” politica; dall’altro lato, la sua persistenza assicurava l’obbligatorietà dell’accordo consociativo, compromettendo il realizzarsi di una compiuta dialettica democratica.

 

Tra i primi a percepire il connotato “stabilizzante” della destabilizzazione – nel solco del gattopardismo tipico della nostra storia – Pier Paolo Pasolini, che firmò il famoso articolo Cos’è questo golpe, uscito sul «Corriere della Sera» il 14 novembre 1974 un anno prima di morire assassinato a Ostia nel giorno che avrebbe dovuto presenziare al congresso radicale (2 novembre 1975). 

 

Culicchia lo riporta nel suo libro e rileva come l’autore di Ragazzi di vita smontasse la teoria dei “doppi estremismi”, evidenziando “che le bombe siano servite in funzione non solo anticomunista ma anche antifascista”, in ciò discostandosi dalla lettura prevalente nell’opinione pubblica.  E conclude: “balza agli occhi la lucidità con cui Pasolini argomenta come il potere abbia saputo/ voluto usare le bombe, e dunque le stragi, per prendere di mira prima l’estrema sinistra e poi l’estrema destra, così da escluderle  da qualsiasi ipotesi di riconoscimento politico e da spingere verso il centro l’elettorato”.

 

Un Paese coinvolto in uno stato di permanente disordine non rassicurava solo all’interno, ma pure all’esterno e nel riferirne il libro di Culicchia compie una sintesi mirabile. Eccola: “la strategia degli opposti estremismi non serviva solo al potere nostrano allo scopo di preservare se stesso, ma anche alle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale: agli Stati Uniti per controllare il Paese con il Partito Comunista più forte d’Occidente, e all’Unione Sovietica perché anche dal suo punto di vista l’ingresso del PCI al governo in un Paese della NATO era di fatto inconcepibile. Quanto alla Francia e all’Inghilterra, avevano i loro interessi nel Nordafrica e nel Medio Oriente, lì dove Enrico Mattei – morto in un misterioso incidente aereo nel 1962 – avrebbe voluto instaurare proficui rapporti con i Paesi produttori di petrolio: e un’Italia alle prese con tali e tanti problemi di politica interna poteva far comodo.”

 

A farne le spese furono tantissimi giovani, le cui vite vennero stravolte o spente per sempre come quella di Sergio Ramelli. Né dalla cosiddetta società civile e dagli intellettuali vi fu chi si applicò fattivamente per scongiurare l’espandersi della violenza politica. Al contrario, nel milieu  culturale e nelle redazioni prevalse un conformismo diffuso contrassegnato dal retaggio di un massimalismo parolaio, non per questo meno truculento. Purtroppo, anziché assistere a una riduzione della sua capacità d’incidenza continua a deformare anche oggi la comprensione dei fatti come pure a stravolgere principi e valori, al pari di quanto accadeva cinquant’anni fa.

 

3)  A non cedere al conformismo fu invece Sergio Ramelli, quando in un tema assegnato a scuola scrisse degli omicidi compiuti dalle Brigate Rosse a Padova il 17 giugno 1974, evidenziando ciò che stampa e tv omettevano: la mancata riprovazione dell’assassinio dei due militanti uccisi nella sezione del MSI. È con quel tema, sottratto dai collettivi di sinistra ed esposto in bacheca come “tema di un fascista” che, nella indifferenza pavida delle autorità scolastiche inizia il suo calvario, terminato poi con il pestaggio sotto casa per “punirlo” del suo pensiero diverso. Quel giovane coi capelli lunghi non aveva fatto altro che questo: pensare autonomamente, non aveva partecipato ad alcuna azione violenta contrariamente a quello che si leggeva in certi articoli, come quello inqualificabile dell’ «Avvenire» (giornale cattolico) che ripeteva le falsità circolanti presso i complici degli assassini.

 

 

È questo un altro aspetto che fa dell’omicidio Ramelli un esempio paradigmatico. Attorno ad esso si esercitò una testarda opera di disinformazione e manipolazione dei fatti. Sia nell’immediato, con le reazioni immonde degli applausi in consiglio comunale alla notizia dell’agguato o con gli sciacallaggi contro la sua famiglia; sia dieci anni dopo, al momento dell’arresto dei colpevoli grazie all’inchiesta del giudice Guido Salvini, con le prese di posizione giustificazioniste di personalità come Ludovico Geymonat in occasione del convegno promosso dagli ex compagni di Democrazia Proletaria. Ancora nel 2014 e nel 2019, i due sindaci di Milano – Giuliano Pisapia e Giuseppe Sala – evitavano di indossare la fascia tricolore quando presenziavano alle celebrazioni in memoria di Sergio Ramelli, a conferma di quanto ipocriti siano gli appelli all’inclusione e a non essere divisivi.

 

Con Uccidere un fascista, Giuseppe Culicchia sollecita tutti a una pietas comune di fronte alla nostra storia recente, invitandoci a rileggerla con occhi privi delle lenti del pregiudizio. Cugino di Walter Alasia, il brigatista milanese ucciso a vent’anni dopo aver sparato ai due carabinieri che dovevano arrestarlo (Il tempo di vivere con te è il libro dello scrittore proprio sul cugino), Culicchia, oggi direttore del “Circolo dei Lettori” di Torino, lancia un’esortazione che muove dal profondo dell’animo di chi ha vissuto su di sé le conseguenze della lunga stagione di violenza, ma ha il pregio di essere argomentata con lucidità e scevra di retorica. 

 

(foto da Corsera e Huffpost)

 

 


Aggiungi commento


Archivio notizie di Agenzia Radicale

é uscito il N° 119 di Quaderni Radicali

"EUROPA punto e a capo"

Anno 47° Speciale Maggio 2024

è uscito il libro 

Edizioni Quaderni Radicali

‘La giustizia nello Stato Città del Vaticano e il caso Becciu - Atti del Forum di Quaderni Radicali’

videoag.jpg
qrtv.jpg

Aiutiamoli a casa loro? Lo stiamo già facendo ma male.

è uscito il libro 

di Giuseppe Rippa

con Luigi O. Rintallo

"Napoli dove vai"

è uscito il nuovo libro 

di Giuseppe Rippa

con Luigi O. Rintallo

"l'altro Radicale
Essere liberali
senza aggettivi"

 (Guida editori) 

disponibile
in tutte la librerie