A poco più di tre settimane dal voto referendario, martedì 17 maggio si è svolta la direzione del Partito Democratico. Dalla relazione del segretario Enrico Letta, approvata all’unanimità, trapela la conferma di una posizione all’insegna di una pervicace volontà conservatrice dello status quo accompagnata dalla debolezza delle motivazioni usate per sostenerla.
Sin dall’estate scorsa, quando è iniziata la raccolta di firme per i referendum sulla giustizia promossi dai Radicali, il PD ha aprioristicamente espresso la sua contrarietà, nonostante l’evidenza che la giustizia negata è vissuta nel Paese come una questione centrale perché investe tanto la vita quotidiana di ciascuno, quanto i fondamenti stessi che garantiscono la salvaguardia della nostra democrazia. Del resto, la scelta di molti suoi esponenti di rilievo di firmare comunque testimoniava come quella contrarietà fosse quanto meno strumentale e mistificatoria.
Oggi Enrico Letta ha ribadito il sostegno al NO per i cinque referendum che sono stati ammessi dalla Corte Costituzionale, sebbene con la “concessione” della libertà di scelta per i singoli. Una formula assolutamente debole per la sua insignificanza, dal momento che sarebbe impensabile il contrario.
Il dato politico che conta sta nell’incapacità del PD di svincolarsi dall’ipoteca giustizialista, tanto più grave nel momento in cui si manifesta all’indomani di uno sciopero della magistratura associata che ha inteso imporre l’arbitraria pretesa di escludere qualunque intervento del legislatore, descritto come “eversore” nonostante le sollecitazioni mosse in tal senso dallo stesso Quirinale.
Quanto incerta sia questa scelta è rilevato anche da Enrico Morando, già senatore del PD, che trova abbastanza singolare esprimersi per il NO sui referendum relativi al CSM e alla separazione delle carriere, mentre invece in Parlamento si è votato a favore della proposta di riforma avanzata dal ministro Marta Cartabia, indirizzata se non altro nel senso delle modifiche scaturenti dall’abrogazione delle norme sottoposte a referendum, e cioè il superamento dell’influenza delle correnti nella designazione dei membri del CSM e della preventiva scelta fra magistratura giudicante o inquirente.
Il comportamento adottato dal PD, che respinge pregiudizialmente l’espressione della sovranità popolare su temi così rilevanti, lo consegna alle forze più retrive e ne fa il supporto di un’azione volta a mantenere le condizioni da quarto mondo in cui si trova la giustizia in Italia.
Nell’impossibilità di obiettare alcunché all’evidente necessità di un cambiamento, il segretario Letta pretende di asserire che l’eventuale successo dei referendum complicherebbe le cose: ancora una volta appare manifesto l’imbarazzo di una posizione all’insegna della subalternità, sia verso i condizionamenti della corporazione in toga e sia verso il populismo giustizialista dei 5Stelle.
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