Dovevano arrivare le piogge autunnali e le prime brume di novembre perché di punto in bianco, dall’interno del PD, il Meccanismo di stabilità europeo (Mes) perdesse l’aura di scelta preferenziale (in questo caso sulla sanità) per la risoluzione delle difficoltà in cui versa il bilancio statale e addirittura vedesse svanire ogni attrattiva agli occhi di chi, sino a poche settimane or sono, ne faceva motivo per additare come cocciuti sprovveduti quanti facevano resistenza.
Nel giro di una stessa giornata, ben due esponenti di rilievo come il presidente del Parlamento europeo David Sassoli e l’ex premier Enrico Letta hanno rilasciato dichiarazioni in cui lo strumento finanziario è indicato come “superato” e anacronistico, mentre lo stesso ministro dell’Economia Roberto Gualtieri lascia intendere che non è così decisivo ricorrervi. Sino a ieri se ne era fatta quasi la linea del Piave, dove si sanciva la differenza fra la responsabilità di governo e la demagogia populista. Cosa è cambiato?
È cambiato che ora ciò che conta è spianare la strada e limitare le ragioni di attrito all’interno della maggioranza. Ancora una volta si comprende come a essere prioritario per i partiti è soltanto la salvaguardia degli equilibri che garantiscono di durare purchessia. Indipendentemente dagli obiettivi che si dice a parole di voler perseguire.
Poco importa che così facendo si buttano alle ortiche la quantità di motivazioni profuse a sostenere la necessità improrogabile del ricorso al Mes. E così, nel PD, si ripete quanto già accaduto a proposito della riduzione del numero dei parlamentari: un testa-coda che porta a un’improvvisa inversione di marcia, che risponde soltanto alle logiche circoscritte degli interessi di bottega in spregio a ogni coerenza o linearità progettuale di una strategia politica.
Un ulteriore tassello nel processo di auto-demolizione del partito che dovrebbe fare da perno della compagine governativa, ma non riesce a imprimere quella “svolta” di cui necessita un governo di fatto immobilista per cui la parola d’ordine è sempre e solo: rimandare, procrastinare nel tempo, nel tentativo – invero disperato – di allungarsi sino alle prossime elezioni del presidente della Repubblica.
Il PD lascia così allo stato di potenzialità anche la più volte emersa consapevolezza dei limiti, perché rimane imprigionato nei suoi tratti di forza subordinata.
Sperare di nasconderlo ricorrendo alle formule stantie dell’unità e dell’unione rientra nell’ordine delle velleità, in contrasto con la vera condizione in cui versa il Paese.
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