Nel corso di un’intervista a Giorgia Meloni, il vicedirettore di «Huffington Post» Alessandro De Angelis ha detto: "È evidente pure ai sassi che non si voterà prima del 2023". A questo assunto, in effetti, la maggioranza in Parlamento si affida, stabilendo le tappe di un viaggio che dovrebbe durare un migliaio di giorni.
Ma quanto fondamento ha una tale prospettiva, tenuto conto del sostanziale immobilismo governativo e dell’assenza di una benché minima comunanza di visione per le scelte che attendono il Paese? Davvero si può credere di galleggiare come sugheri nello stagno così a lungo?
A essere davvero evidente è invece il fatto che, dopo il 21 settembre, il Parlamento attuale non più conforme alla lettera della Costituzione. Trascinarsi nel nulla per altri tre anni non è affatto auspicabile e di questo forse cominciano a rendersi conto anche coloro che, sino ad ora, hanno promosso e sostenuto la soluzione del Conte-bis.
Gli esiti del voto amministrativo hanno, per certi versi, evidenziato come la minaccia sovranista sia molto de-potenziata, per cui diventa plausibile immaginare altre soluzioni da mettere in atto una volta emanata la nuova legge elettorale. Potrebbero così garantirsi una serie di risultati: dalla neutralizzazione del M5S al riposizionamento geostrategico dell’Italia, considerato il probabile lento sciogliersi della liaison fra Germania e Cina.
In questo senso, si colgono segnali che potrebbero anche portare a una diversa scansione temporale e magari prevedere pure una cesura elettorale, che consentirebbe di far nominare il successore di Mattarella da un nuovo Parlamento e darebbe al nuovo governo un respiro maggiore così da gestire al meglio i piani di investimento e risanamento economico.
In ogni caso, quali che saranno le eventuali prospettive politiche, è indubitabile che il prossimo snodo è rappresentato proprio dalla nomina del nuovo Presidente della Repubblica. Al di là dei più o meno interessati commenti del premier Conte in favore di un reincarico a Mattarella, va osservato che – a fronte di un Parlamento non più rappresentativo del corpo elettorale e per di più di fatto cassato dal referendum – sarebbe quanto mai da scongiurare un presidente che uscisse eletto dopo il quarto scrutinio, sostenuto soltanto dai partiti di maggioranza.
E, d’altro canto, sebbene vi sia il precedente del secondo mandato a Napolitano, la rielezione dell’attuale Capo dello Stato non sarebbe una soluzione considerato anche che, a ben leggere la Costituzione, questa assegna la carica di senatore a vita al cessare del mandato settennale.
Solo una elezione presidenziale che raccolga il più vasto consenso, da realizzarsi già nei primi scrutini, permetterebbe di bypassare le criticità di una nomina da parte di un Parlamento deprivato della sua pienezza rappresentativa. È tempo già da ora di lavorare a rose di nomi davvero condivisi, magari diradando le velleità di quanti ben difficilmente sono in grado di soddisfare questo presupposto. È tempo di lavorare a un Presidente davvero di tutti, meglio se eletto nel 2022 al primo scrutinio con il concorso di tutte le forze presenti in Parlamento.
Non è un problema da poco nell’Italia divisa e frantumata dagli interessi delle corporazioni, dove si pratica la delegittimazione costante dell’avversario. Se si vogliono creare le condizioni per ridare vigore a una democrazia asfittica, l’operazione di una convergenza sul nome della personalità che siederà al Quirinale rappresenta il giusto modo per porne le premesse indispensabili.
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