di Rino Mele
Un segnale della presenza del contrario di ciò che si nega, questo è il tema sviluppato da Freud nel 1925 con il saggio "La negazione", Nel 1925 l'Italia da poco era entrata nell'onda alta del Fascismo, trascinandovi mezza Europa, un'ideologia in cui il “no” non esiste, ma solo un ipertrofico sì, una marea di "Obbedisco", il verbo servile che moltiplica la sua eco (distorcendo il significato originario, la risposta ostile di Garibaldi al generale La Marmora nel 1866, mentre era mosso a conquistare Trento).
Siamo ancora figli dolenti dell'orrenda esperienza fascista, nessuno ha mai educato i ragazzi alla bellezza di pensare il "no" quando è giusto opporsi per sciogliersi dalla grigia oppressione di una maggioranza stanca e abitudinaria.
Tra qualche giorno, il referendum confermativo (sul taglio dei parlamentari alla Camera e al Senato), il 20/21 settembre. Bisogna andare a votare con la consapevolezza dell’alto valore del referendum. Un troppo raro momento corale, e sacrale: il popolo viene chiamato a pronunziarsi, direttamente, senza deleghe, e il parlamento - per un istante - si lascia mettere in ombra mentre tutti noi, milioni e milioni di soggetti politici, diciamo il nostro pensiero sintetizzato in un avverbio, "sì" oppure “no".
La Costituzione, all'articolo 75, lo indicava come "popolare" (“è indetto referendum popolare per deliberare”), è il momento in cui tutti s’alzano in piedi, e dicono quella sillaba, che è la sintesi di una scelta.
Questa volta la scelta è delicatissima, si tratta d'intervenire sul testo della nostra identità, la Costituzione, insomma decidiamo se essere diversi da quello che siamo. Ma questa volta purtroppo non in maniera organica, solo sforbiciando qualcosa e lasciando il segno di quest'asimmetria sul corpo del testo. Che, nella Parte Seconda, all'art. 56, afferma: "La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale e diretto. Il numero dei deputati è di seicentotrenta, dodici dei quali eletti nella circoscrizione Estero(…).
La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall'ultimo censimento generale della popolazione, per seicentodiciotto".
La Costituzione è il risultato di molti compromessi, ma è da riformulare sempre tenendo conto della sua simmetria strutturale interna, e rispettandone il fine che è stato quello, primario di farne una casa abitabile per la dignità di un intero popolo.
Certamente è una Costituzione saggia, forse non sempre coraggiosa, pure è il meglio che i padri costituenti, appena usciti dall'esperienza delirante della guerra fascista, hanno potuto fare lavorando alacremente, fidandosi l'uno dell'altro con qualche riserva. Sarebbe bastato che fosse prevalsa l'indicazione di Palmiro Togliatti per la formulazione del primo articolo della Costituzione e molti dolori, e incerte e inutili retoriche, ci saremmo risparmiati: per l'art.1 della Costituzione ("L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro), Togliatti aveva chiesto di scrivere: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sui lavoratori": era un indicazione concreta, e non astratta, sulle fondamenta da porre nella costruzione del nuovo.
Tra le “cento risposte” pubblicate su questo referendum dall'Espresso di questa settimana, lineare e chiara quella di un grande storico, Luciano Canfora: "Se l'obiettivo è - come sostengono - di fare economie, le "economie" si fanno riducendo i privilegi non il numero”.
Significativa anche quella di un altro storico, Miguel Gotor: "Politicamente è sbagliato legare le modifiche costituzionali alle maggioranze di governo, così come fare un uso plebiscitario ed elettoralistico dello strumento referendario". E, acutamente, Gotor aggiunge che il problema "non è costituito dal numero dei parlamentari, ma dal modo con cui sono eletti, ossia per cooptazione".
Come non pensare all'immane spudorata vergogna dei listini bloccati con cui le bande partitiche permettono le elezioni di candidati senza che siano votati?
Calpestando rispetto e dignità dei cittadini.
Intanto, l’epidemia segna ancora i confini della nostra umiliata convivenza: i rapporti sociali continuano progressivamente a deteriorarsi in una sfiducia e sospetto crescenti.
Se ha un leggero, innocente colpo di tosse, il nostro vicino, diventa un colpevole da evitare. Quel poco di socialità, che fino all’anno scorso avevamo, s’è rivelata per quello che era: la furbizia di vuote cerimonie. Sempre più attuale la “Storia della colonna infame” di Manzoni. Leonardo Sciascia, che ne fece una lucente introduzione all’edizione di Sellerio nel 1981, scrive: “La figura dell’untore già si era materializzata nella peste del 1576, quando colto sul fatto (dice Nicolini, ma quale fatto?) un ignoto fu impiccato”. E riprende: “La figura dell’untore ebbe in quella del 1630 una più tragica, moltiplicata e prolungata apoteosi”.
La tortura fece confessare a terrorizzati innocenti di essere la causa della peste.
Ma ascoltiamo Manzoni: “Quell’infernale sentenza portava che, messi su un carro fossero condotti al luogo del supplizio (…) spezzate l’ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra, dopo sei ore scannati, bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume”.
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