La crisi che da tempo interessa la politica italiana è giunta forse a un culmine, perché è come se si fossero cumulate macerie su macerie tanto da pregiudicare gli stessi lavori di riassestamento.
Alla lunghissima transizione seguita alla fine del sistema post-Yalta, con gli avvitamenti di un bipolarismo che non ha dato luogo al superamento della democrazia fittizia che ha contraddistinto la storia repubblicana, è seguito un forsennato attacco alla politica e l’occupazione del dibattito pubblico da parte di manipoli di influencer in veste di opinionisti e giornalisti, specialisti nel deformare i dati della realtà e nel piegarsi ai disegni di potere interni ed internazionali.
Lo si riscontra anche nella campagna referendaria sulla riduzione del numero dei parlamentari. Dapprima l’approvazione popolare per essa è stata data per scontata, senza che nessuno si sia mai davvero preoccupato di spiegarne i termini e il contesto nel quale veniva calata. Quando è stato però richiesto il referendum ed è cominciato, sia pure compresso e soffocato, un minimo di confronto si è scoperto che anche nella cosiddetta base dei cittadini si era ben lontani dalle percentuali bulgare. Già oggi, nonostante le settimane di smaccata faziosità informativa e di sostanziale occultamento, vi sono sondaggi che registrano oltre un terzo di voti contrari.
A questo punto, il ministro Luigi Di Maio ha rilasciato una intervista nella quale ha proposto una lettura del SI al referendum come opposizione all’establishment. Di quale establishment parli non si comprende bene, né tanto meno come – stando al governo con il PD – possa davvero proporsi quale soggetto di opposizione all’establishment. Per non parlare poi del fatto che la stragrande maggioranza dell’arco di forze politiche presenti in Parlamento – che di per sé hanno o no a che vedere con l’establishment? – si pronuncia a favore del SI: dalla Lega a Fratelli d’Italia, passando appunto per i 5Stelle e il PD.
Bene allora l’appello per il NO di 183 costituzionalisti, che pur nei limiti di un linguaggio accentuatamente accademico, apre un varco di verità su una scelta politicamente grave e dai risvolti preoccupanti e pericolosi per gli equilibri istituzionali e sulla uscita democratica dalla crisi che attraversa da anni l’Italia.
Che il mondo accademico non deve avere una funzione di presa di posizione tutta politica è corretto, ma dalla loro analisi viene fuori, anche se in modo forse debole ma comunque utile, che ci troviamo di fronte ad una involuzione della democrazia rappresentativa. E questo vale la pena sottolinearlo.
Il bicameralismo di per sé non è affatto causa della lentezza del processo legislativo come dimostrano le leggi approvate in doppia lettura nell’arco di poche settimane. La questione essenziale resta quella che la riduzione del Parlamento, la sua marginalizzazione lascia spazio libero ad altre entità che non rispondono alla volontà popolare, ma gestiscono il processo decisionale in termini di arbitrio e autoreferenzialità.
Per questo occorre votare NO, per non cedere alla deriva oligarchica e alla mortificazione del principio di sovranità popolare proclamato dall’art. 1 della Costituzione.
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