Dopo una lunga attesa sono finalmente arrivate le tanto annunciate proposte di Matteo Renzi in tema di riforma della legge elettorale. In passato non abbiamo certo risparmiato critiche nei confronti del Rottamatore fiorentino, in particolare per l’assenza (quasi imbarazzante) di un reale programma di governo attorno alla sua comunicazione politica.
Questa volta, tuttavia, occorre riconoscere che i tre modelli elettorali presentati dal nuovo segretario del Pd, e comunicati con una lettera ai vari segretari di partito, appaiono forse in grado di tentare di rispondere a un criterio di governabilità di cui c'è bisogno.
Non mancano contraddizioni ma come piattaforma per iniziare e' un passo in avanti. Vediamo i contenuti delle tre proposte. Una premessa importante da fare è che la riforma in questione riguarderebbe soltanto la legge elettorale della Camera, dal momento che, secondo i propositi di Renzi, il Senato dovrebbe essere sostituito – con un procedimento di revisione costituzionale ancora tutto da vedere – da una Camera delle Autonomie, in cui verrebbe cancellata ogni forma di incarico elettivo (“I senatori diventano tali sulla base dei loro ruoli nei Comuni e nelle Regioni”).
La prima riforma elettorale proposta da Renzi si basa sul modello della legge elettorale spagnola: “Divisione del territorio in 118 piccole circoscrizioni – scrive Renzi nella lettera –, con attribuzione alla lista vincente di un premio di maggioranza del 15% (92 seggi)”. Il punto di forza del modello spagnolo risiede proprio nell’alto numero di circoscrizioni di piccole dimensioni (pochi seggi assegnati): meno sono i seggi in ballo in ogni circoscrizione e più aumenta la soglia di voti da raggiungere per poter ambire a conquistare questi seggi, per la “gioia” dei partiti più grandi.
E’ chiaro dunque che se le circoscrizioni avessero una dimensione rilevante, l’effetto di “sbarramento” indiretto nei confronti delle piccole forze politiche sarebbe minore, e la frammentazione che ne conseguirebbe farebbe rimanere i rischi di ingovernabilità e di larghe intese più che mai attuali. Ma i due punti fissati da Renzi – un premio di maggioranza del 15% e una quota di quattro o cinque seggi assegnati in ogni circoscrizione – sembrano in grado di poter generare un risultato chiaro e di poter favorire la formazione di una maggioranza.
La seconda riforma si fonda sul modello della legge Mattarella, con l’importante aggiunta, però, di una correzione. Se il Mattarellum venisse infatti applicato così com’è stato concepito ed utilizzato per ben tre elezioni dal 1994 al 2001, lo scenario politico tripolare attuale (centrodestra, centrosinistra, M5S) darebbe vita al medesimo risultato conosciuto alle elezioni dello scorso febbraio.
Per evitare che il ritorno al Mattarellum possa rappresentare un’insana quanto inutile pratica masochista (che i grillini, invece, paiono inconsapevolmente voler gradire), il segretario democratico propone che la quota di seggi assegnata in via proporzionale non sia più del 25%, bensì del 10%, in modo da assegnare il restante 15% sotto forma di premio di maggioranza al partito o coalizione più votata, così come previsto dal modello “spagnolo”.
La terza ipotetica riforma, infine, si basa sul modello del doppio turno di coalizione dei sindaci. Chi vince prende il 60% dei seggi e i restanti sono divisi proporzionalmente tra i perdenti. Se nessuna forza politica raggiunge la maggioranza assoluta dei voti al primo turno, le due liste o coalizioni più votate vanno al ballottaggio.
Così facendo la scelta degli elettori si articolerebbe in due modi: al primo turno la preferenza verrebbe attribuita al partito preferito, mentre al secondo gli elettori sarebbero chiamati a scegliere in modo strategico per il partito che vorrebbero vedere al governo. Il larghissimo premio di maggioranza in questo caso, a differenza di quanto accade nell’ormai “bruciato” Porcellum, sarebbe legittimato proprio dalla maggioranza assoluta di voti ottenuta al secondo turno.
La vera sfida, ora, per Renzi è trovare un’intesa con le altre forze politiche. Su un punto, infatti, il segretario democratico è stato chiaro, e cioè nel non voler “imporre” la propria idea di legge elettorale alle controparti, provando a realizzarne una il più condivisa possibile.
Dopo aver manifestato in più occasioni una certa reticenza, questa volta il leader del Nuovo Centrodestra Alfano si è detto “pronto a lavorare sulla legge elettorale sul modello dei sindaci”. La partita vera, però, si gioca con Berlusconi e con Grillo. Il primo non vede di buon occhio il modello del doppio turno, da sempre inviso al centrodestra, né il modello Mattarella, che in passato, con i suoi collegi uninominali, ha creato non pochi grattacapi al leader di Forza Italia.
Berlusconi, così, potrebbe decidere di trattare per il modello spagnolo, non a caso oggetto, negli ultimi anni, di isolati apprezzamenti. Il Movimento 5 Stelle, invece, si è trincerato come al solito dietro una cieca ed infruttuosa opposizione ad ogni forma di dialogo. Dopo aver liquidato immediatamente ogni ipotesi di confronto, dai piani alti è giunto l’ordine di “non cedere alle provocazioni di Renzi sui media”, e di attendere invece le risposte che “verranno date dai capogruppo M5S nelle sedi opportune”.
Grillo, insomma, sbarra ogni porta, continuando paradossalmente ad alimentare l’immagine di un movimento di fatto contrario ad ogni modifica del tanto odiato Porcellum.
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