Doveva essere il presidente dell’Alþingi, il Parlamento islandese, Steingrímur Sigfússon, a richiamare l’attenzione dell’Europa su quanto accade in Catalogna, intervenendo recentemente davanti a tutti i presidenti di parlamento degli Stati europei, quindi in ambito di Consiglio d’Europa.
In particolare, ha voluto dire la propria incredulità per la sorte della sua ex omologa Carmen Forcadell, condannata a undici anni di carcere in quanto presidente del parlamento catalano nei mesi caldi del 2017.
Già nel passato il parlamento islandese aveva espresso solidarietà alle vittime della repressione spagnola. Non è superfluo ricordare che il parlamento islandese esiste da più di un millennio, visto che fu fondato prima dell’anno 1000, nel nel 930.
Intanto un altro presidente di un altro parlamento, molto più giovane di quello islandese ma molto più affollato, il Parlamento europeo, non solo non alza un dito per la ex presidente del Parlamento catalano, ma tiene fuori dal Parlamento di Strasburgo tre suoi deputati regolarmente eletti da due milioni e passa di cittadini europei: i catalani Puigdement, Comín e Junqueras, i primi due in esilio in Belgio, l’altro in galera, condannato di recente dal Tribunal Supremo spagnolo a tredici anni.
Già lo scorso luglio Junqueras aveva invano chiesto al pieddino Davide Sassoli che gli riconoscesse urgentemente l’immunità a cui ha diritto ogni eletto a Strasburgo. Oggi lo accusa davanti alla Corte Generale dell’Unione Europea, che ha sede a Lussemburgo, di aver disatteso la normativa interna del Parlamento europeo e gli chiede i danni.
E dire che non sarebbe costato più di tanto a Sassoli avere un po’ più di spina dorsale, visto che la questione dell’immunità è tutt’altro che chiara se perfino lo stesso Tribunal Supremo si è rivolto alla Corte europea per avere lumi in materia. Il pronunciamento è atteso nel giro di qualche settimana. La decisione di Sassoli, accusa l’avvocato di Junqueras, non ha alcun fondamento giuridico. Che poi, quella di Sassoli, è un’ordinaria vicenda di ponziopilatismo, visto che lui non ha netto no, ma se ne è lavato le mani, dichiarandosi non competente (!) in materia.
E intanto il livello di scontro – come si sarebbe detto un tempo – tra il movimento indipendentista catalano e lo Stato spagnolo si sta alzando, mentre siamo a ridosso delle elezioni politiche in Spagna.
A Pedro Sánchez che promette agli elettori, se gli affideranno la guida del governo, di riportare in Spagna Puigdemont e trascinarlo davanti alla Giustizia, l’ex presidente della Generalitat ha reagito demandandogli se intende seguire l’esempio dell’ex-ministro socialista José Barrionuevo, ministro degli Interni, condamnato nel 1998 per la sua militanza parallela nel gruppo terrorista GAL relativamente a un sequestro di persona in un altro Paese europeo, nella fattispecie la Francia: «Che fa, signor Pedro Sánchez, mi vuole sequestrare? Si accomodi pure, ma sappia che la cosa più probabile è che farà la fine di Barrionuevo e della sua banda. E comunque non si preoccupi più di tanto. Quando un criminale è ministro socialista, più di tre mesi in carcere non se li fa, anche se fosse condannato a dieci anni».
Barrionuevo, per l’appunto, fu condannato a dieci anni e rimase in carcere tre mesi. E poi: «... Lasci che glielo dica francamente: lei è un irresponsabile,e un irresponsabile non potrà mai contare sui nostri voti, perché qui c’è bisogno di buon senso, responsabilità e dialogo».
Indubbiamente Puigdemont conferma e consolida la sua statura di leader. Per di più ha aperto pure un fronte canadese, contro il governo di Ottawa, che gli ha negato il visto d’ingresso in Québec, dove è stato invitato dagli indipendentisti locali, provocando così immediate reazioni nella provincia francofona che nel ’95 andò vicinissima al divorzio dal Canadà con un referendum perduto per un pelo.
Perplessità ha espresso il pur prudente Primo Ministro François Legault, ma a pesare di più è una mozione votata all’unanimità dall’Assemblée Nationale, il parlamento del Québec, in cui si denunciano le «pene severissime» inflitte dalla giustizia spagnola a «politici catalani eletti legittimamente e democraticamente», e in cui si lancia un nuovo appello al negoziato, al fine di trovare una soluzione politica, democratica e pacifica al conflitto in atto in Catalogna, e in cui si chiede il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. Puigdemont ricorrerà al Tribunale Federale del Canadà. Avendo dalla sua tutto il Québec.
Nel frattempo altri mandati d’arresto europei sono stati spiccati dal giudice Llarena, ringalluzzito dopo le condanne del Tribunal Supremo, per ottenere l’estradizione degli esuli rifugiati in Belgio – Toni Comín e Lluís Puig i Gordi, oltre allo stesso Puigdemont - e in Scozia, dove ha trovato asilo Clara Ponsatí. Scozia che è intanto tornata, tramite il suo Primo ministro Nicola Sturgeon, ad annunciare la richiesta, dopo le elezioni del 12 dicembre - di un secondo referendum per uscire dal Regno Unito dopo che il regno Unito, ma non la Scozia, ha votato Sí al referendum per uscire dall’Unione Europea.
E poi c’è la piazza. Erano almeno 525.000 (dati della polizia) ad aver invaso le strade di Barcellona lo scorso 18 ottobre per reagire alla sentenza del Tribunal Supremo. Il giorno dopo a Londra erano 1 milione a manifestare contro la Brexit.
Ora, considerata la popolazione della Catalogna (circa 7,5 milioni di persone) e quella della Gran Bretagna (67 milioni), vuol dire che a Londra è sceso in piazza 1 britannico e mezzo su 100, mentre a Barcellona si sono mobilitati 7 catalani su 100.
Che è come se a manifestare a Londra si fossero ritrovati in 5 milioni.
ULTIM’ORA. Le autorità britanniche hanno respinto la richiesta di arresto per l’ex ministro dell’Educazione Clara Ponsatí. Motivo: è «sproporzionata».
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