L’hanno definita la “Srebrenica del Caucaso”. È Khojaly, una città situata nella regione del Nagorno Karabakh, dove il 25 febbraio del 1992 avvenne un massacro delle popolazioni civili di etnia azerbaigiana ad opera delle forze armene, divenuto simbolo tragico di una delle questioni più controverse e tuttora irrisolte scaturite dalla dissoluzione dell’impero sovietico: lo scontro fra Armenia e Azerbaigian sulla sovranità del Nagorno Karabakh, enclave del territorio azerbaigiano abitata in maggioranza da armeni.
Se ne è parlato nel corso della Conferenza internazionale sul tema della “Protezione della popolazione civile nei conflitti armati”, organizzata dal Comitato Italiano Helsinki per i diritti umani in collaborazione con la LIDU, che ha preso spunto proprio da un caso tipico dei conflitti civili ed etnici di cui è piena la storia europea del secolo scorso.
Tutto ha origine dal processo di trasmigrazione demografica messa in atto già nel corso del 1800 dall’impero zarista con il trasferimento in Transacaucasia di migliaia di armeni, in linea con la politica di spostamento delle popolazione per affievolire il sentimento nazionalistico ed etnico e per tenere sotto controllo il territorio: una scelta sistematica, fatta per altro da tutti gli imperi, i cui effetti perversi sono emersi nella loro drammaticità con la Prima guerra mondiale e il conseguente prevalere dello Stato nazione.
L’Unione Sovietica ha poi solo soffocato le rivendicazioni nazionalistiche esistenti, che con la caduta del Muro di Berlino sono riaffiorate con stermini di massa, dai Balcani al Causaso, appunto.
A più vent’anni di distanza quella del Nagorno-Karaback resta un “conflitto sopito”, per certi aspetti dimenticato: una “pace armata” pronta a interrompersi in qualsiasi momento, mentre allo stato non si vedono spiragli concreti di risoluzione del problema. In tal senso, si può anzi ben dire che col passar del tempo crescono le difficoltà dovute soprattutto al fatto che nella ragione giocano più “attori con interessi contrapposti”: l’Armenia, che sotto l’egida della Russia e le pressione delle comunità nazionali della diaspora spinge per l’indipendenza dell’enclave in base al principio dell’autodeterminazione dei popoli; l’Azerbaigian, che con l’appoggio della Turchia e in parte dell’Iran che gioca un ruolo più ambiguo, chiede invece il rispetto del principio dell’integrità territoriale.
Ma l’aspetto etnico-nazionalistico è solo una parte seppur importante del problema. A questo si aggiungono questioni strettamente economiche che alimentano la conflittualità fra le parti. A differenza dell’Armenia, l’Azerbaigian è infatti un paese in forte sviluppo e ricco di risorse, oltre a essere territorio di passaggio di un nuovo gasdotto verso l’Europa, alternativo ai corridoi tradizionali monopolizzati dalla Russia. La circostanza allarga ovviamente il fronte di interessi in conflitto, contribuendo allo stallo di una situazione che sembra essere per ora la più conveniente per tutti.
In questo quadro spicca l’assenza di un ruolo significativo dell’Unione Europea che fa pendant con l’inadeguatezza degli strumenti offerti dal diritto internazionale per mezzo dei quali si muovono impotenti gli organismi ad hoc predisposti a fronteggiare casi conclamati di crimini di guerra. E massacri come quelli di Khojaly, siano o meno essi catalogabili come genocidio, fanno parte dei crimini di guerra che, in quanto tali, sono sotto la giurisdizione della Corte penale internazionale. Ma questa, già con poteri limitati, per operare secondo il suo mandato dovrebbe ottenere il riconoscimento ancora mancante delle due parti in conflitto.
Più efficace potrebbe in teoria essere invece l’azione dell’Osce, organismo che opera attraverso i suoi osservatori sul campo, senza però avere in sé quelle procedure per far seguire alle denunce di violazioni dei diritti umani un’azione concreta internazionale, perché priva di un meccanismo sanzionatorio che non può peraltro prescindere dal consenso delle parti anche in questo caso mancante.
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