Nel secondo trimestre dell’anno la New York Times Company, la società editrice dell’omonimo quotidiano newyorkese, è tornata in attivo grazie al forte aumento degli abbonamenti digitali (+40%), ora a quota 738mila. Si tratta di una notizia molto importante e che conferma ancora una volta quale sia tra i principali soggetti informativi mondiali la tendenza comune (e forse risolutiva) nell’affrontare la grave crisi del settore editoriale: far pagare le notizie online.
Nonostante il calo del fatturato (-0,9% a 485,4 milioni di dollari) e quello inarrestabile delle entrate pubblicitarie (-5,8%), il New York Times è riuscito a chiudere il secondo trimestre dell’anno con profitti per 20,1 milioni di dollari. Uno scenario ben diverso da quello affrontato dal giornale nello stesso periodo dello scorso anno – una perdita di 87,6 milioni – e determinato proprio dall’aumento degli abbonamenti online.
Mark Thompson, amministratore delegato del New York Times, ha dichiarato che “i risultati riflettono l’evoluzione in corso delle iniziative per gli abbonamenti digitali”. Nella stessa direzione, infatti, ha deciso di muoversi da tempo anche il magnate Rupert Murdoch che, dopo aver introdotto il cosiddetto “paywall” nei suoi Times e Wall Street Journal, ha giusto da ieri reso a pagamento anche la versione online del Sun (due sterline a settimana).
Murdoch aveva annunciato il passaggio al sito a pagamento a marzo, dichiarando che l’accesso gratuito ai contenuti del Sun era divenuto “insostenibile”. “Chiedere ai lettori di pagare per il contenuto è l’unico modo di tutelare il futuro dell’industria cartacea” aveva spiegato il neo-direttore David Dinsmore.
In Italia come sappiamo, a parte timide ed occasionali eccezioni, il business del “micropagamento” langue. Pensare, tuttavia, che la soluzione alla crisi dell’editoria, che colpisce duramente anche il nostro Paese, possa consistere in una semplice imitazione dei rimedi altrui appare quantomeno illusorio.
Tante, troppe, le differenze tra il sistema informativo anglosassone (ed europeo) e quello italiano. A partire dallo scarso livello di diffusione e lettura dei quotidiani tra la popolazione italiana – da sempre al di sotto della media europea –, per finire alle degenerazioni prodotte dall’indiscriminata erogazione dei finanziamenti pubblici, la cui parte del leone è quella delle cosiddette grandi testate (pur essendo quest’ultimi necessari al funzionamento della macchina editoriale proprio per i motivi suddetti).
Insomma, la complessità della questione richiederebbe un livello di analisi e di discussione certamente maggiore di quello che la classe politica, lo stesso comparto dei media e l’opinione pubblica – nonostante i dati allarmanti sul tracollo del settore – non appaiano ora in grado di esprimere.
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