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16/11/24 ore

Primarie, a Bersani le patate bollenti


  • Silvio Pergameno

Dopo la prevedibile vittoria allae Primarie, a Bersani resta in mano la patata bollente, anzi le patate bollenti, perché i tuberi che il segretario del PD si ritrova sul tavolo sono due (ovviamente interconnessi): come venire incontro alla richiesta di ”partito nuovo” che sale da tanti dei possibili elettori o simpatizzanti (nuovi, ma anche vecchi) del centro sinistra e come affrontare il problema della credibilità e dell’affidabilità di un governo di centro sinistra di fronte alla palese contraddizione tra le aspettative di un elettorato colpito dalla crisi economica e le misure indispensabili per il risanamento finanziario e l’innovazione economica, sollecitate da un’Europa il cui sostegno (o almeno la benevolenza) appare indispensabile proprio per evitare il peggio. 

 

Quanto alla prima patata, va ricordato che Bersani ha rinunciato alla norma dello statuto del partito che gli consentiva di evitare le primarie (il segretario come candidato alla presidenza del consiglio) e ha raggiunto lo stesso scopo attraverso la consultazione popolare (su per giù).

 

Lo ha raggiunto, ma ha dovuto fare i conti e avvalersi della forza dell’apparato, servirsi dell’espediente di limitare la partecipazione al voto invece di favorirla, invocare la tradizione sollecitando il “teniamoci il sicuro”, una condotta cioè che non si configura certo come un’apertura all’esterno e meno che mai come un proposta di innovazione, anche se non esclude necessariamente qualche cambiamento.

 

C’è stata un’apertura alla famosa contendibilità, subito peraltro stroncata, perché nessuno può sostenere che la battaglia sia stata combattuta ad armi pari. Bersani ha ironizzato sul “carisma”, che, è vero, può giocare brutti scherzi, ma acquista portata dirompente se si innesta, come fattore trainante, su una spinta dal basso in cerca di espressione e di valorizzazione; una spinta della quale, in parole povere, si è convinti di non poter disporre. Non sembra affatto, cioè, che si possa sostenere, come fa Pierluigi Battista sul Corriere della Sera di oggi, che la leadership di Bersani dopo il voto del 2 dicembre sia sorretta da una forte legittimazione popolare.

 

Starà quindi alla volontà politica del segretario, oltre all’ampiezza degli spazi di cui potrà fruire o che potrà costruirsi, se per il PD dei prossimi mesi si delineeranno orizzonti più aperti di quelli legati alla crisi del berlusconismo.

 

E a questo punto si apre il discorso sulla seconda patata. E la prima osservazione che viene spontanea in questo ambito è che il PD dopo queste primarie si configura più come un partito di sinistra, nel senso tradizionale del termine nel nostro paese, che di centro sinistra (sempre nell’ambito degli schieramenti attuali del quadro politico italiano).

 

La foto di Vasto si è salvata soltanto in formato ridotto, ma la presenza di Vendola, la sbandierata volontà del leader pugliese di seguire un percorso decisamente antimontiano insieme ai modesti esiti dei renziani nel mezzogiorno e a Roma, possono predisporre al livello di un futuro governo della sinistra un coacervo di difficoltà difficilmente superabile.

 

Vendola ha già lanciato la sua parola d’ordine keynesiana, già di per se stessa non troppo di moda se applicata a situazioni connotate dalla presenza di un debito pubblico impressionante e resa poi sospetta se si pensa che sotto le Alpi il keynesismo all’italiana diventa quasi un sinonimo di spesa facile.

 

Non si può a questo punto dimenticare l’esito del famoso sondaggio del Sole 24 ore di due settimane, dal quale emergeva per il PD di Bersani (probabile vincitore nella consultazione della prossima primavera) la prospettiva della conquista di un 35% degli elettori, che saliva al 44% per un PD di Renzi, una differenza significativa non soltanto per la natura del partito ma anche per le prospettive di una sua eventuale opera di governo.

 

Prendendo per buono l’esito di questo sondaggio intanto il partito di Renzi avrebbe meglio meritato il premio di maggioranza, che la legge elettorale, porcellum o non porcellum, comunque promette, sempre ammesso che la vittoria di Renzi non spaventasse l’elettorato tradizionale.

 

C’è poi da dire che un partito di centro-sinistra avrebbe potuto gestire con più facilità i rapporti con il centro, ove se ne fosse rivelata la necessità, e quindi trovarsi in una condizione di minori tensioni interne nel momento di dover adottare provvedimenti impopolari, resi indispensabili per affrontare i problemi della crisi.

 

Senza dimenticare il fatto che la vittoria di Bersani, per i termini nei quali è stata ottenuta, offre allo schieramento avversario un’insperata prospettiva, quanto meno di poter fruire del solito strumento di propaganda anticomunista, non privo, tuttora, di una sua agibilità.


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