Su «Quaderni Radicali» ed «Agenzia Radicale», per lo meno dal tramonto dell’ordine di Jalta nel 1989, ricorre il pressante appello alla politica italiana – e segnatamente alla sinistra – affinché risolva la “questione liberale”.
I lunghi anni di democrazia consociativa (e fittizia) estromisero il modello di Stato di diritto fondato sulla divisione dei poteri, come pure una disposizione di stampo realmente riformatore: fenomeni che hanno manifestato tutto il loro carico di perniciose conseguenze nella tormentata e infinita transizione seguita alla fine della cosiddetta “prima Repubblica”.
Si può dunque immaginare come si sia accolto l’entusiasmo manifestatosi nel PD dopo l’esito delle recenti elezioni in Francia: è stata la conferma di quanto la sinistra sia lontana dal far suo un approccio ispirato ai criteri auspicati di un liberalismo moderno, propri del metodo che ha distinto l’alterità radicale pannelliano nell’ambito dello scenario politico italiano. Credere che il successo del Nuovo Fronte Popolare testimoni il segno di una riscossa e non piuttosto un’assoluta mistificazione è un abbaglio drammatico, tanto più se poi s’intenda farne un modello per le iniziative future in Italia.
Non tanto e solo per l’evidenza dei numeri che vedono in decisa minoranza tra gli stessi Francesi l’agglomerato di forze dell’unione della gauche, quanto per il fatto che obiettivi e prassi di tale schieramento sono caratterizzati dall’essere in netto contrasto con un progetto di cambiamento di stampo liberale e radicale dell’Italia, inteso ad ampliarne il gradiente di democrazia partecipata all’insegna di una capacità di governo preoccupata di dare soluzioni praticabili ai problemi presenti nella società.
Basta passare in rassegna le proposte avanzate, affiancandole ai loro bersagli polemici, per rendersi conto di come questo tipo di sinistra dia mostra di un finto antagonismo contraddistinto da una formidabile attitudine mistificatoria, che in definitiva risulta quanto mai utile e funzionale al predominio di poteri oligarchici interessati prima di tutto a preservare lo status quo a discapito di domande e bisogni emergenti fra i cittadini.
Si può cominciare dall’avversione nei confronti della sovranità popolare, tanto da rendersi disponibili a operazioni verticistiche e nient’affatto limpide. Nel compierle, le si maschera con la difesa della democrazia minacciata e si ricicla la demonizzazione dei concorrenti a colpi di anti-fascismo e anti-razzismo.
Quanto diverso il comportamento dei radicali al tempo di Marco Pannella! Il leader radicale fu tra i primi a denunciare i “repubblichini anti-fascisti” e a comprendere come formule quali l’arco costituzionale rispondessero a una concezione dirigista e oligarchica del potere.
Ma, soprattutto, va dato merito a Pannella di non aver mai temuto di dare voce al popolo, attraverso lo strumento referendario principale manifestazione di quella sovranità popolare posta a fondamento della Repubblica nel primo articolo della Costituzione. Cosa ben diversa dall’uso delle piazze o delle campagne mediatiche indirizzate da influencer ante-litteram.
Un’altra istanza promossa nelle forme di un travisamento-travestimento è quella della difesa dei “diritti civili”, oggi incentrati prevalentemente sulle tematiche gender. Nella sinistra odierna, la loro declinazione assume contorni preoccupanti nel momento in cui danno corpo a prescrizioni o imposizioni a nome dell’autorità pubblica. Un atteggiamento distante anni luce dal modello libertario, che vi vedeva invece l’espressione dell’autonomia degli individui e che, non a caso, comincia a suscitare dubbi persino nei movimenti femministi che sono stati protagonisti delle lotte di liberazione dagli schematismi sessuofobi.
Come si è visto in Francia, ma anche in Italia, si tratta di proposte che muovono più dalla pretesa di demolire ciò che è naturale e anche le tradizioni culturali, che non da un sincero anelito di libertà: lo si scopre quando, anziché rifarsi a un modello che valorizzi la persona in quanto tale, si seguono tortuosi percorsi a base di “quote” per genere o si evocano infinite forme di “reati” settoriali.
Anche le politiche dell’accoglienza e gli elogi per il multiculturalismo muovono su binari che fanno deragliare da un approccio concreto e laico. Soprattutto perché motivate più dal respingimento dei valori sui quali sono state costruite le democrazie occidentali, che non da intenti davvero solidaristici in grado di operare pragmaticamente su dati di realtà e senza i condizionamenti di un ideologismo strumentale.
Dati di realtà che erano invece ben presenti, ad esempio, nella lotta contro la fame nel mondo lanciata dai radicali sin dai primi anni ’80 del secolo scorso e che una politica lungimirante avrebbe dovuto sostenere con forza, al fine di scongiurare sfruttamenti e tragedie che una immigrazione priva di controllo non fa che favorire.
Che oggi una certa sinistra sembri attratta da simili chimere non è frutto soltanto di una confusione o del cedimento superficiale alle facili illusioni della propaganda: dipende – come si è detto – dalla mai affrontata questione liberale al suo interno.
Essere andati al seguito dell’agenda dettata dai poteri finanziari e mediatici, a colpi di anti-politica e false priorità, è stata una dimostrazione di subalternità che trova conferma anche nel modo in cui si sono concluse le elezioni in Francia, dove quello di Mélenchon è un antagonismo finto ed edulcorato assolutamente funzionale alle tentazioni delle oligarchie di volgere le democrazie in qualcosa di diverso e distante dal luogo della partecipazione e della condivisione responsabile nelle scelte da compiere per il nostro futuro.
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