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16/11/24 ore

Terrorismo: deformità indotte e anti-politica


  • Luigi O. Rintallo

Com’è stato possibile che le piazze abbiano accolto cortei di giovani liceali inneggianti ai terroristi di Hamas, responsabili dei massacri in Israele di sabato 7 ottobre? È una domanda che la politica italiana dovrebbe porsi, chiedendosi al contempo quando ha cominciato a manifestarsi una tale devastazione della logica e cosa l’abbia davvero determinata.

 

L’incapacità di segnare un discrimine netto rispetto alla barbarie al pari delle ingannevoli e superficiali comparazioni tra le violenze in atto, prodotto di cavillosità ipocrite per celare una irriducibile faziosità ideologica, sono l’esito di un lungo processo.

 

Ne individuava i tratti essenziali il direttore di «Quaderni Radicali» e «Agenzia Radicale» Giuseppe Rippa in Alle frontiere della libertà, il libro-intervista edito da Rubbettino nel febbraio 2015, dove leggiamo: 

 

Se abbiamo in piazza persone che invocano nuovi Hitler, vuol dire che si è esaurita la spinta della tragedia della Seconda guerra mondiale e dei lager… e questo significa anche che l’Occidente non ha più niente da esprimere in termini di valori e di civiltà. Un tempo l’«imbecille collettivo» era di natura fondamentalmente ideologica, ora è post-ideologico: quello su cui agisce non è un soggetto che possiede più piani della propria esistenza, ma è un soggetto frantumato. Il soggetto che abbia consapevolezza di sé può vivere, invece, una dimensione empirica, laica, dei rapporti e quindi della tolleranza e del rispetto per gli altri” (p. 51).

 

Tale frantumazione si deve in gran parte alle deformità indotte nel dibattito pubblico dall’azione pervicace di stampa, tv e web, che congiura nel senso di sabotare l’acquisizione degli strumenti per una lettura minimamente consapevole della realtà che viviamo.

 

Lo vediamo anche in questa occasione così drammatica, con i talk show di cosiddetto approfondimento dove il confronto è sempre estremizzato, dando a propalatori di argomenti deturpanti la ragione spazi abnormi che consegnano loro una immeritata medaglia di credibilità.

 

Di conseguenza si riversano liquami inquinanti nel confronto pubblico, per cui – per esempio – non esiste differenza tra le vittime della strage casa per casa degli ebrei nei kibbutz e quelle dei bombardamenti aerei israeliani; oppure si propinano assurde assimilazioni tra gli sgozzatori di Hamas e i carbonari italiani in lotta contro gli Austriaci, facendo di Carlo Pisacane un antesignano del fanatismo terrorista.

 

Pensare che tutto questo sia puramente casuale, sarebbe da ingenui. Rimestare gli argomenti in una miscela indistinta non fa che favorire una condizione caotica, pre-condizione per l’esercizio di un potere fuori da ogni controllo democratico. Da questo punto di vista, le varie contrapposizioni che vengono proposte di volta in volta dal circuito mediatico sono quasi sempre fuorvianti, ma congeniali a occultare la sostanza del problema.

 

Non è un caso che ciò stia avvenendo a partire dalla fine dell’ordine post-Jalta e, per quanto riguarda la politica italiana, coincida con il dissolvimento dei partiti della Prima repubblica.

 

Se oggi gli eredi della sinistra democristiana e post-comunista nel PD non sanno che comportamenti adottare di fronte alla questione del conflitto in corso in Medioriente; se – a sua volta – il Centrodestra non è in grado di dimostrare alcuna autonomia, ma si pone sempre al seguito di scelte adottate da altri, è perché la politica ha da tempo abdicato al suo ruolo. La vera divisione non è allora fra globalisti e sovranisti, fra i fautori dell’Occidente (ache se viene da chiedersi se esiste un Occidente con valori davvero comuni) e il fanatismo o l’autoritarismo.

 

Il discrimine autentico è quello tra un approccio politico che si nutre di pragmatismo razionale e l’anti-politica alimentata dai deliri irrazionali, che siano il fanatismo o il giustizialismo.

 

Nella politica italiana questo discrimine emerse con nettezza all’inizio degli anni ’90, quando l’anti-politica, favorita dalle campagne giornalistiche delle testate consegnate al controllo dei poteri finanziari, espulse dal proscenio il pragmatismo riformatore della politica.

 

Da allora, col cedimento di spazi da parte della politica stessa ai soggetti corporativi (siano essi funzionari, magistrati, burocrati) ed economico-finanziari, si è sempre più estesa la desertificazione di una democrazia di per sé già fragile e ben poco partecipata.

 

 

 

 


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