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16/11/24 ore

La favola dei governi tecnici pro-UE nella lettura interessata delle oligarchie italiane


  • Luigi O. Rintallo

Quasi sempre, racconti e romanzi affiancano al prodotto della fantasia degli autori alcuni elementi riconducibili a dati reali. Lo stesso può dirsi per le “narrazioni” (o story telling, come si dice oggi) che animano le nostre cronache politiche. Le due, che in queste ore vanno confrontandosi sui media italiani, hanno per argomento l’eventualità che il governo in carica dopo il voto del 2022 possa venir sostituito da un esecutivo guidato da tecnici e propongono opposte letture al riguardo.

 

La prima “narrazione” è quella che trapela dalle dichiarazioni della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, quando – a margine del vertice di Malta – rassicura che “sicuramente non cadrò per un complotto, non succederà quello che è successo ad altri prima di me. Se andrà male sarà per colpa nostra, per qualcosa di concreto”. Il riferimento è a quanto accaduto nel 2011, in occasione delle dimissioni del governo Berlusconi dopo la tempesta finanziaria sullo spread, che portò a Palazzo Chigi Mario Monti, appena nominato senatore a vita dal presidente Giorgio Napolitano.

 

Un passaggio politico controverso, che il Centrodestra ha interpretato in seguito come l’esito finale di una tessitura ordita tra Quirinale e presidenza della Camera, allora affidata a Gian Franco Fini, trovando paradossalmente parziale riscontro proprio nelle smentite dei personaggi coinvolti, se è vero che lo stesso Monti confermò di essere stato contattato per l’incarico e di essersi confrontato con Prodi e Debenedetti prima di accettare.

 

Come che sia, è bastato questo riferimento ad alimentare la seconda “narrazione”, secondo la quale molti giornali attribuiscono alla premier in carica la “ossessione del complotto”, ribadendo invece che la prospettiva di un governo tecnico è piuttosto giustificata dai dati economici e dalle debolezze strutturali dell’Italia, il cui debito pubblico la espone alle speculazioni richiedendo l’intervento di mani esperte capaci di tranquillizzare i mercati.

 

Su «La Stampa», Marcello Sorgi scrive che “i governi tecnici, nella recente storia politica italiana, sono stati la medicina per un Paese come l’Italia, malato di debito pubblico eccessivo e non in grado di curarsi, a prescindere dal colore dei governi”. I governi di Monti prima, di Draghi poi, sarebbero dunque serviti – come fu detto – per “fare i compiti a casa” richiesti dall’UE, così da riassestare conti traballanti e rispettare gli impegni presi con i partner europei.

 

Entrambe le narrazioni contengono elementi di verità, perché è ben difficile negare che nel 2011 ci sia stato un agitato attivismo della politica nostrana, indipendentemente dalle urgenze esterne, così come è oggettiva la fragilità economica di un Paese che ha il carico di un debito pubblico enorme sulle spalle. Tuttavia, presentano anche indubbie creazioni fantasiose, che scaturiscono prevalentemente dal modo particolare con il quale è descritta la nostra adesione e partecipazione all’UE. 

 

Con il venir meno, dopo il dissolvimento dell’URSS nel 1991, del supporto fornito dal modello post-Jalta alle oligarchie di potere italiane, queste ultime trovarono negli obblighi derivanti dall’adozione dell’Euro una nuova “figura di schermo” utile per giustificare la propria intangibilità.

 

Nel solco delle condizioni che fissarono l’adesione italiana alla NATO, nei termini di una oggettiva subordinazione dovuta al fatto che gli Anglo-Americani erano stati i vincitori della 2ª guerra mondiale, anche della nostra ammissione alla zona Euro è stata data dai gruppi dominanti una lettura che poneva l’Italia in uno stato di subalternità rispetto a partner come Francia e Germania.

 

Lettura, in realtà, destituita di fondamento, visto che senza l’Italia ogni ipotesi di unione europea risulterebbe impraticabile: essa era, tuttavia, funzionale ad attribuire un dato di irrinunciabilità per il Paese a scelte prese, invece, nel primario interesse particolare dei gruppi dominanti medesimi.

 

A conferma della mancata aderenza ai dati concreti di queste “narrazioni” correnti, vi è poi l’esperienza concreta rappresentata proprio dai cosiddetti governi tecnici di questi anni. La cura del governo Monti di certo a tutto servì tranne che a determinare le condizioni per una ripresa: l’innalzamento della pressione fiscale (con l’IMU applicata anche alle prime case che diede all’erario oltre 6 miliardi) contribuì a deprimere il PIL, uno degli indici essenziali per il rispetto dei parametri economici dia.

 

Parametri, d’altro canto, che per Francia e Germania erano tutt’altro che tassativi e che – solo qualche anno dopo, con la crisi seguita alla pandemia – sono stati lasciati a quel destino di “stupidità”, denunciato a suo tempo da Romano Prodi. Ugualmente si può dire che dai governi tecnici non è stata impressa alcuna reale svolta né rispetto alla pratica della spesa facile (basti qui citare il caso dello scialo rappresentato dal bonus a pioggia di cento euro, finito anche a chi soggiornava in hotel), né tanto meno a una significativa riduzione del debito pubblico.

 

In compenso, in coincidenza coi governi tecnici è seguito sempre un eccezionale balzo in avanti della percentuale di cittadini astenuti alle elezioni: dal 19,5 al 24,8 con Monti e dal 27,1 al 36,1 con Draghi.

 

Un monito che la classe politica, nel suo insieme, dovrebbe tener ben presente se non si vogliono minare le più che fragili basi di una democrazia malata come quella italiana.

 

 


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