La prima considerazione che viene alla mente nell’apprendere che il premio Nobel per la pace è stato quest’anno assegnato all’Europa riguarda la motivazione principale del riconoscimento, che, forse proprio perché si trattava del premio per la Pace, è stata riferita alla capacità dell’Europa di aver saputo individuare nel principio di integrazione l’antidoto ai conflitti, dopo secoli di aggressioni e guerre a non finire.
Certamente queste affermazioni si mantengono nell’ambito della verità, ma testimoniano anche delle miopie e delle remore delle quali è intessuto il processo di integrazione che ne è derivato e resta da chiedersi perché non si siano imposti altri principi, più consoni ai tempi, sui quali fondare la ricostruzione e preservare la pace, nonostante la lezione dei quindici milioni di morti, tra civili e militari, nel conflitto 1914-18 e i sessanta in quello 1939-45.
In realtà dietro il conferimento del premio Nobel all’Europa si configura un’idea della pace limitata ai rapporti fra gli stati europei, concepiti poi come enti in grado di esercitare una sovranità vera e illimitata non soltanto nelle costruzioni teoriche, ma nella realtà dei rapporti e dei conflitti internazionali, oggi, cioè, al livello mondiale.
Ma, invece, la modesta integrazione avviata nel secondo dopoguerra era, in effetti, il frutto di un processo che si era svolto e continuava a svolgersi sulla testa degli stati europei, cioè della divisione nei due blocchi contrapposti che un’Europa divisa, distrutta, rassegnata e incapace di speranza, aveva subito a Yalta.
Solo considerando questa realtà vera si riesce allora a comprendere il peso avuto, nell’effettivo mantenimento della pace, dall’equilibrio del terrore, come si è potuto registrare in occasione delle ripetute gravissime crisi che hanno caratterizzato il corso della guerra fredda, alla fine sempre superate senza ricorso alle armi: il blocco di Berlino nel 1948 – 49 per impedire le massicce fughe in occidente dal regime comunista della Repubblica Democratica Tedesca o i missili sovietici a Cuba nel 1962, per difendere il nuovo regime comunista di Fidel Castro, minacciato dagli esuli cubani, con la CIA alle spalle…
E vale poi la pena di ricordare che già all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale emersero subito le tendenze politiche che stavano prevalendo, e proprio in occasione delle trattative tra paesi europei e Stati Uniti in merito all’offerta di questi ultimi (1947-48) di un cospicuo piano finanziario di aiuti per la ricostruzione (il c.d. Piano Marshall).
Già di fronte all’offerta statunitense indirizzata all’Europa nel suo complesso (anche quella orientale) e da affidare a una gestione unitaria, gli stati europei pretesero invece che essa fosse ripartita fra i singoli stati; la Francia poi voleva escludere la Germania; l’Inghilterra chiese una posizione speciale; i paesi scandinavi insistettero per avere garanzie di rispetto per la loro neutralità e l’Unione Sovietica, che pure era stata invitata, aveva ben altre idee che collaborare con l’Occidente e si tenne orgogliosamente fuori, costringendo anche i paesi dell’est a fare altrettanto.
E poi tutto il percorso dell’integrazione è stato contrassegnato dall’incapacità di mettere in discussione la sovranità degli stati, fino ai recenti (non casuali) rifiuti della costituzione europea e all’incapacità di affrontare al livello di un problema europeo la crisi che da anni ci affligge e dalla quale non sappiamo se e come ce la faremo a venirne in capo, in assenza di un vero governo europeo in grado di gestirla. Se si guarda poi alla costruzione della pace dopo i due conflitti mondiali, si scopre che essa fu caratterizzata da un’affinità di fondo: la tendenza a costruire il futuro guardando al passato.
A Versailles nel 1919 prevalse l’esaltazione dei toni nazionalistici e delle rivalità, nonostante che non fosse difficile percepire l’enorme distanza che separava l’idea di nazione di Mazzini da quella di Guglielmo II o anche di un democratico radicale come Georges Clemenceau, forse il principale responsabile dei tragici errori al tempo commessi.
Certo, la consapevolezza di questi errori ebbe un ruolo alla fine della seconda guerra mondiale, negli accordi di pace di Parigi del 1947, ma si trattava, appunto, di uno sguardo volto al passato nella prospettiva della ricostruzione degli stati nazionali, nonostante fosse ben chiara la responsabilità dei nazionalismi nelle origini delle recenti terribili tragedie: e non si comprese il rapporto fra nazionalismo e crisi delle democrazie; non si comprese che dopo il conflitto il mondo intero e non soltanto l’Europa non sarebbe stato più quello di prima.
Non si valutò appieno il senso del perdono concesso alla Germania, che implicava il riconoscimento di una quota di responsabilità per l’accaduto anche a carico delle democrazie nazionali e nazionaliste dell’Europa occidentale. Né si comprese il ruolo delle esperienze comuniste o l’esigenza di un contenimento politico e non solo militare dell’espansionismo sovietico: come tali gli stati nazionali, al di là della NATO, non seppero esprimere che Ostpolitik e rifugi nei neutralismi.
Questo riconoscimento all’Europa del premio Nobel per la pace (di cui il giorno dopo già non si parla più) lo si comprende invece proprio nell’ottica di una nazione che dal processo di integrazione europea si è tenuta fuori. E in Europa quali reazioni ha provocato? Euforia ufficiale, diremmo obbligata, negli alti livelli dell’Unione, ma ben diversa è stata la reazione nei paesi dell’est.
E valga per tutti lo sdegno di Vaclav Havel, il primo Presidente della Repubblica Ceca dopo la fine del comunismo, che non può dimenticare la colpevole ignavia dell’occidente europeo di fronte al sacrificio degli altri europei, quelli dell’est che gli accordi di Yalta avevano consegnato allo stalinismo, e degli stessi dissidenti in Unione Sovietica, di quanti finivano nei lager siberiani….
Compiacersi allora di che? Di quale difesa dei diritti umani dei quali, secondo le motivazioni del premio Nobel, l’Europa avrebbe tenuto alto il vessillo? Ai tempi del nostro Risorgimento coloro che credevano nei valori della nazionalità come portatrice di libertà andavano a combattere varcando anche l’oceano….
Oggi serpeggiano i moralismi che dividono virtuosi e scapestrati, si riaffacciano tendenze autoritarie come in Ungheria, rispuntano tendenze razziste dietro le recriminazioni nei confronti dei disperati che bussano alle nostre porte o nei complessi di superiorità che animano quei compiaciuti distacchi neutralistici e quelle chiusure nel perfezionismo delle proprie istituzioni che finiscono poi per crogiolarsi nelle culture delle incomunicabilità , abbandonando al loro destino quelli che stanno appena fuori dalla porta di casa.
O, peggio ancora, nella tendenza a non farsi scrupoli nello stringere lucrosi rapporti di affari con i dittatori, compresi i più feroci con i loro stessi popoli, emersi dalla prima rivolta anticoloniale, salvo poi restare esterrefatti dallo scatenarsi di movimenti estremisti, che hanno portato il terrorismo anche nelle nostre contrade.
E la vicenda dello Stato di Israele? Facile mettersi in cattedra con le tante critiche mosse alla sua politica; ma quale ruolo hanno saputo svolgere i paesi europei per fornire una ragionevole via di uscita nello scontro tra israeliani e palestinesi? Hanno soltanto subito gli eventi, dimostrando plateali incapacità di essere all’altezza dei tempi.
E oggi in Europa questo premio per la pace non riesce nemmeno a provocare un esame di coscienza: il problema pare sia solo quello di chi dovrà mettersi in frac, tuba e papillon per recarsi alla cerimonia del ritiro in Norvegia, visto che non si sa nemmeno chi la rappresenti questa nostra Unione.
Aveva ragione allora Henri Kissinger quando disse che non sapeva con chi parlare in Europa, perché non risultava che avesse almeno un telefono.
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