Al cospetto dell’intervista di Carlo De Benedetti rilasciata al giornalista del «Corriere della Sera» Aldo Cazzullo, chi legge per prima cosa si domanda: in che veste è stato interpellato sulla guerra in Ucraina? Perché riveste incarichi politici e di governo? Come imprenditore, per cui dobbiamo aspettarci altri interventi di suoi colleghi? Per i suoi trascorsi di finanziere e frequentatore del gotha bancario italiano? In quanto preoccupato tutore dell’interesse pubblico nazionale? Per il suo prestigio intellettuale?
Riposti questi interrogativi, senza rispondervi, il lettore scorre l’intervista e scopre che il perno del ragionamento consiste nel rilevare una divergenza fra gli interessi dell’Europa e quelli degli Stati Uniti, riguardo alla situazione determinata dall’invasione russa dell’Ucraina. Gli Americani, pur di indebolire la Russia di Putin, sarebbero pronti a sostenere gli Ucraini nel conflitto, mentre l’Europa dal prolungamento della guerra avrebbe solo da perdere.
In sostanza gli stessi argomenti che, sin dall’inizio dell’invasione, sono stati avanzati da un variegato ventaglio di soggetti – politici e giornalistici – accomunati da due fattori: un radicato anti-americanismo, dove si mescolano senso di superiorità culturale e tentazioni neutraliste, ed una singolare inversione dell’ordine delle priorità, per cui la salvaguardia del nostro stile di vita possa prescindere dalla difesa del diritto internazionale e delle regole che ispirano gli ordinamenti democratici.
La presa di posizione di Carlo De Benedetti giunge, infatti, alla fine di una sequenza contrassegnata prima dal rispolvero dei cliché da “partigiani della pace” (sulla scia degli eredi di Giulietto Chiesa); poi dai riflettori mediatici puntati ad esaltare opinionisti presunti antagonisti, al limite del folklorico, proseguendo poi con quegli interventi che, in nome del pragmatismo o della pace, insistevano più che altro sulle obiezioni di natura geo-economica o morale, comparendo su un arco di testate che dal «Fatto» o «la Verità» arriva sino all’«Avvenire».
Ora l’intervista al «Corriere», oltre a testimoniare una correzione rispetto all’orientamento iniziale del giornale di Via Solferino espresso per esempio dagli articoli di Panebianco o Mieli, ha quasi il suono di un “contrordine”, se consideriamo il fatto che l’Ingegnere ha sempre vantato di considerarsi la tessera n.1 del Partito Democratico.
La riprova, del resto, è data dalle contemporanee dichiarazioni di esponenti di Largo Nazareno: per esempio Del Rio (“Draghi deve frenare Biden, basta armi”) o lo stesso segretario Enrico Letta (“Nessuno ha mai pensato di inviare armi a Kiev come strumento di offesa”) che attenuano di molto la nettezza dei pronunciamenti in favore della lotta per la libertà. Tanto da far loro assumere il carattere di una “sbandata”, una cotta improvvisa da cui si è presto rinsaviti in nome della ben più condizionante preoccupazione di preservare il consenso e le posizioni di potere.
D’altronde è proprio questa la chiave di lettura dell’intervento di De Benedetti, in linea con quello che è stato il suo ruolo storico nello scenario italiano. Ogni sua iniziativa – editoriale o politica – è stata sempre volta a impedire che nell’area progressista prevalesse un indirizzo compiutamente riformatore e liberale, allo scopo di tutelare l’assetto di potere dentro il quale ricavare il massimo vantaggio. È la logica del raider, la stessa che lo ha sempre ispirato anche in ambito strettamente finanziario ed economico.
Vale anche nel merito delle considerazioni espresse a proposito della guerra in corso, le quali fra l’altro dimostrano in più punti delle incoerenze logiche, a dimostrazione che sono mosse da ben altre motivazioni che non quelle dichiarate. Se davvero, come afferma nell’intervista, “la democrazia si esporta con il successo sociale ed economico delle società organizzate democraticamente” come si può trascurare l’offensiva lanciata dalle nazioni autoritarie contro queste società organizzate democraticamente?
Davvero si può stare alla finestra, dicendo “Cosa c’entriamo noi?”. E ugualmente, se si ammette che per una difesa comune europea sono necessari decenni, come si può pensare che si possa fare a meno dell’alleanza con l’America? Ed infatti ad accarezzare l’idea non è affatto tutta l’Europa, tant’è che Paesi storicamente neutrali (Svezia, Finlandia) sono oggi propensi a entrare nella Nato e finanche la Svizzera rompe la sua tradizionale estraneità.
Lo scenario prospettato nell’intervista prefigura piuttosto la tentazione neutralista, che di fatto coinciderebbe con una subordinazione di tutta l’area europea all’asse imperniato sulla Cina che per De Benedetti è un “pericolo” solo per gli Americani.
A conferma che a preoccuparlo davvero è ogni possibile scostamento dall’equilibrio ambiguo creatosi negli ultimi anni con le democrature euro-asiatiche, nelle cui more le élites dominanti in Italia sperano di trovare la sistemazione più comoda per loro.
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