Nella generale coltre di silenzio calata dai media di principale impatto sui sei referendum per la “Giustizia Giusta”, sono ben pochi coloro che si sono accorti del loro accoglimento da parte della Corte di Cassazione.
Quest’ultima ha potuto risparmiarsi le lunghe procedure di verifica sulle centinaia di migliaia di firme sottoscritte dai cittadini durante l’estate, dopo che nove consigli regionali (Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria e Veneto) hanno votato i quesiti presentati dal Comitato referendario e così ora si attende il pronunciamento della Corte Costituzionale, dal quale dipende il giudizio sull’ammissibilità dei referendum e il loro conseguente svolgimento.
Sebbene dal Palazzo della Consulta spesso siano uscite sentenze discutibili e vi sia una lunga teoria di interventi volti a limitare quanto più possibile l’esercizio della seconda opportunità di espressione del voto popolare, quella referendaria appunto prevista dall’art. 75, è abbastanza improbabile l’affossamento della consultazione e pertanto ciò assicura che l’appuntamento con il corpo elettorale si svolgerà nella prossima primavera.
Tanto più dopo che metà delle regioni si è espressa in suo favore, in rappresentanza di una schiacciante maggioranza della popolazione che non è affatto virtuale perché – in realtà – corrisponde all’effettiva insoddisfazione che si registra nel Paese per come è amministrata la giustizia.
Ma al di là delle questioni tecniche, va ancor più sottolineata l’importanza politica di questo passaggio e sorprende non poco che, anche fra i pochi che si sono spesi in favore di questi referendum, vi sia chi non ne coglie appieno la rilevanza. Sul «Riformista» è stato di recente espresso il timore che l’aver affidato la celebrazione dei referendum alla richiesta delle Regioni possa pregiudicare la partecipazione dei cittadini e sprecare così l’occasione di un confronto generale sulla questione (come dopo trent’anni non si sa… poi se non ora quando!).
Certamente se si insiste a leggere l’appuntamento referendario soltanto in riferimento a complesse problematiche giuridiche, si può anche ammettere che ciò possa allontanare l’interesse dei votanti. Ma farlo significa assecondare il depistaggio informativo e sembra quasi rivelare che il proclamato sostegno all’iniziativa non era adeguatamente motivato sul piano politico.
La questione giustizia in Italia è una questione politica per eccellenza, perché attiene al potere e ai rapporti tra i poteri.
Da come la si affronterà dipende la possibilità di invertire il corso degli eventi di questi ultimi trent’anni, durante i quali si è assistito alla deriva di un’anti-politica promossa allo scopo di demolire sistematicamente le basi stesse della nostra democrazia e consegnare a soggetti senza controllo la gestione delle decisioni che riguardano la collettività.
In questo senso la celebrazione dei referendum sulla giustizia è un passaggio dirimente e per questo essi sono temuti dalle élites dominanti nel Paese. Ne sono talmente consapevoli che proprio per questo faranno di tutto per occultarne la portata innovativa e non c’è affatto bisogno che si dia loro una mano riconducendoli entro una cornice di natura procedurale o tecnica.
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