Nel confronto pubblico sul covid19 e la pandemia, si possono individuare due gravi mistificazioni di fondo. La prima è aver diffuso nel comune sentire l’illusione e la pretesa del rischio zero, unitamente al corollario che vita e salute debbano venire prima di ogni altra cosa. La seconda è che il dubitare delle letture prevalenti, fornite dal mainstream informativo dei media italiani, sia dovuto a superstizioni anti-scientifiche. Ma non è così, perché non esiste alcuna compattezza della “comunità scientifica” su nessuno degli argomenti relativi al virus. Le perplessità sulla questione sono nate proprio tra ricercatori e medici ed hanno riguardato praticamente ogni aspetto: dalla contagiosità di vaccinati e scoperti all’indice di rischio dei vari vaccini o la loro pericolosità per le fasce di età più basse.
Da queste due mistificazioni sono derivate, come già osservato, tutte le conseguenze negative che la pandemia ha comportato: sia nel ritardare un’azione di contrasto razionale e pragmatica, sia nell’ammorbare senza rimedio le relazioni e i rapporti a livello tanto individuale che sociale.
Quindi va certamente respinta la gran parte delle considerazioni promosse da giornalisti e conduttori tv nel segno di un contrasto fra schieramenti contrapposti, dove “quelli di là” sono classificati sic et simpliciter come zotici e ottusi, mentre “questi di qua” sono illuminati e sapienti. A ben vedere, anzi, si scopre che a comportarsi in modo fideistico e confessionale sono proprio i pasdaran più rigidi e severi contro ogni minima manifestazione di cautela nei confronti di talune soluzioni che si intendono adottare.
Emblematico, in tal senso, quanto è accaduto a proposito del testo redatto da Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, dove i due filosofi hanno espresso le loro preoccupazioni circa gli effetti discriminatori di un provvedimento come l’ipotizzato green pass che inibirebbe molte attività ai non vaccinati. Proprio lo sproporzionato fuoco di fila delle reazioni, da parte di chi contestava le loro osservazioni, evidenziava come molti intervenuti ricorressero a espedienti e motivazioni davvero risibili. Dimostrando due cose: pregiudizio e manipolazione, due elementi tipici di ogni posizione all’insegna del fanatismo.
In veloce rassegna, si andava dalla sufficienza verso i filosofi sempre “astratti” e distanti dalla realtà (Paolo Guzzanti, «il Riformista») allo sbrigativo invito a non occuparsi del governo del virus, affidandosi esclusivamente ai virologi (Massimo Gramellini, «Corriere della Sera») oppure all’emotività del richiamo dei tanti morti per covid per impedire ogni altro tipo di riflessione (Antonella Viola, «La Stampa»).
La replica di Paolo Flores d’Arcais merita di essere segnalata in dettaglio, perché non solo dà dimostrazione dell’allontanamento dai principi di logica elementare ma ingenera anche pericolose confusioni sul piano pratico, che – queste sì – rischiano di indurre in molti una sicurezza ingiustificata. Su «Micromega», contestando a Cacciari di aver accostato il green pass a una misura dispotica, Flores d’Arcais lo paragona invece alla patente di guida o al porto d’armi.
Eppure non occorre essere aquile per capire che la patente attesta la conoscenza delle regole del codice della strada, mentre il green pass cosa attesta? Il green pass certifica soltanto di aver fatto la vaccinazione anti-covid, ma non altro. E soprattutto non dà garanzia al suo possessore di non essere a propria volta contagioso per gli altri, per cui confidare nel passaporto vaccinale come un’assicurazione di sanità assoluta può essere persino fuorviante.
Le domande implicite nella riflessione di Agamben e Cacciari non vanno dunque liquidate con superficialità, perché riguardano nodi nient’affatto secondari per la vita collettiva. Può un governo democratico limitare i diritti dei cittadini, sulla base di un consapevole uso di informazioni distorte e sulla paura indotta da queste stesse informazioni? E ancora: tali provvedimenti ottengono davvero i risultati che si prefiggono, o servono ad altro? Anche considerando la durata limitata all’eccezionalità del momento, come assicurare che lo stato d’eccezione non subisca indebiti prolungamenti o estensioni per altri tipi di condizioni (non solo i non vaccinati, ma anche chi trascura o nuoce alla propria salute con vizi voluttuari) giudicate motivo di limitazione? E quante e quali aree dei diritti possono rientrare nel perimetro di queste misure: il lavoro, lo studio, la stessa tutela sanitaria?
Già adesso l’Associazione Nazionale Presidi, per bocca del suo presidente Antonello Giannelli, dichiara che gli alunni non vaccinati non dovrebbero avere lezioni in presenza ma solo in DAD: il che significa lasciare a casa anche chi è del tutto sano, in assenza fra l’altro di dati informativi sull’effettiva possibilità di contagio nelle aule scolastiche. Del resto, se si mantiene la logica per cui al primo positivo in una classe il resto dei compagni finisce in DAD è chiaro che il prossimo anno scolastico sarà comunque compromesso, nonostante gli indubbi avanzamenti registrati nel contrasto alla malattia che non segnala ricoveri e aggravamenti paragonabili a un anno fa.
Con quasi il 90% dei docenti vaccinati e la conferma che gli esiti avversi del covid presso i giovani sono molto limitati, sarebbe opportuno cominciare ad avere un altro tipo di approccio meno condizionato dalle preoccupazioni di burocrati intenti più ad evitare eventuali contenziosi, che non a trovare soluzioni.
E questo è un altro ordine di problemi che richiederebbe al più presto di essere oggetto di ripensamento da parte delle autorità di governo. Sino a che punto scelte e decisioni devono essere determinate dai limiti imposti dall’interno delle corporazioni e degli apparati burocratici?
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