Il 9 ottobre scorso il Presidente della Turchia ha lanciato un attacco contro la Siria del nord, dove esiste un governo che si sovrappone a quello di Bashar al Assad, ed è il primo per un popolo frazionato tra la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria: quello dei curdi, il più grande popolo senza uno stato e che ora, dopo aver avuto un ruolo molto rilevante nella lotta per sconfiggere l’ISIS, spera di cominciare a porre le premesse per un futuro diverso. E questo è un problema che, colme europei veri non dovremmo ignorare.
Lo scopo dichiarato di Erdogan è quello di costituire una zona cuscinetto larga trenta chilometri tra il suo paese e la turbolenta situazione siriana, e può essere il motivo contingente dell’operazione militare in atto, ovviamente ovviamente deplorata dall’Unione Europea, che così forse spera di essersi messa la coscienza a posto: la realtà è invece che ci siamo ben guardati dall’assumere iniziative di portata dissuasiva o quanto meno in grado di influire sul corso degli eventi, così venendo meno a uno degli scopi fondamentali per i quali da parecchi decenni ormai si sono avviati piccoli passi nel tentativo di affidare a livelli sovranazionali compiti che nel mondo globalizzato non possono essere più affrontati nel quadro di premesse che si sono definite duecento anni prima.
Si vuol dire che il “caso Erdogan” non può essere trattato, e più ancora definito, come una questione di sola politica internazionale, più o meno importante, perché la Turchia, come tutti sappiamo, fa parte della storia europea con la quale è intessuta da secoli di complessi rapporti e non a caso ne segue modalità e movenze quanto meno poco convincenti proprio nella zona del pianeta che oggi presenta i problemi più complessi.
La questione curda cioè non è un problema lontano dall’Europa (può esser utile ad esempio ricordare che se ne parlò a Versailles, anche se non si giunse ad alcuna conclusione) ed è un problema spinoso nella storia della Turchia, come lo è il problema della democrazia in Turchia, del quale il caso “Erdogan” è un aspetto.
Negli ultimi tempi il governo di Ankara ha dovuto affrontare la resistenza democratica delle piazze e nelle ultime elezioni il partito di Erdogan è riuscito a stento a ricostituirsi una maggioranza attraverso elezioni suppletive: sono le testimonianze di una vicenda che non possiamo considerare come un fatto lontano, mentre è parte integrante della nostra storia europea e una delle tante prove dell’urgenza di procedere in fretta nell’avanzamento di una vera costruzione europea.
Si fa presto sdegnarsi perchè Erdogan replica alle condanne alle sue mosse formulate da parte europea minacciando di aprire le porte verso l’Europa ai tre o quattro milioni di profughi dei conflitti in Siria che tiene in Turchia con i soldi che gli diamo perché quelle porte le tenga chiuse.
È una vergogna, anche se si tratta di una condizione difficile e assai complessa da affrontare ed è la netta testimonianza del terribile fatto che l’Europa non trova la strada per uscire di quella politica o meglio da quella condizione spirituale di decadenza e di decadentismo – purtroppo anche compiaciuto - che ha caratterizzato la prima metà del secolo scorso. Con tutti i rischi che vi sono connessi.
I russi hanno capito subito che dovevano essere presenti, gli europei dormono, e gli americani dimostrano di non avere più di tanto interesse al medio Oriente, dal quale se ne stanno andando via appena possibile.
l primo è stato Obama, al termine della guerra in Iraq e forse non solo e non tanto per quel prevalente interesse della sinistra in genere per la politica interna (dove si conquista il potere – o quello che ne resta qui in Europa…) ma proprio perché sembrano essere stufi del ruolo mondiale avuto nel secolo scorso, con tanto di guerre combattute a migliaia di chilometri da casa loro e con quello che hanno comportato…
Già Roosevelt nei primi anni quaranta del secolo passato faticò non poco a convincerli a intervenire nel conflitto…
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