Il nuovo governo Conte, come ho già avuto occasione di dire, secondo me non è un “Conte – bis”, ma è sempre lo stesso governo, che continua con una maggioranza diversa da quella precedente con la Lega, e non è “trasformista”, perché il trasformismo di Depretis negli anni ottanta del secolo decimonono nasceva nella situazione politica postrisorgimentale con i nuovi problemi della nascita dell’industria e del presentarsi una classe operaia: si orientava cioè in qualche modo verso il futuro.
Il governo Conte invece è l’esito della mancanza di soluzioni ereditate e rimaste irrisolte in un mondo che cambia. L’Italia dopo la seconda guerra mondiale è stata governata da un partito “conservatore”, la Democrazia Cristiana, che convogliava ceti moderati e ceti contadini, e da un Partito Comunista che puntava sulla creazione di un fronte popolare, al quale era indispensabile non la DC come tale, ma il “dialogo con i cattolici”.
Era l’alternativa alla concezione liberale, che si fonda sull’idea di una società aperta, articolata in varie forze politiche, mentre il presupposto dei fronti popolari era la divisione in due della società: da una parte le forze popolari, dall’altra i conservatori destinati a configurarsi come reazionari (in fondo un po' come nella Russia dei primi decenni del secolo scorso). La DC nella sostanza non ha mai accettato questo discorso, ma ci si è adattata nella misura in cui le tornava utile, soprattutto per il fatto che il “pericolo comunista” era parte essenziale del suo ruolo (soprattutto sul piano elettorale).
Il gioco è durato per decenni, ma con l’implosione del comunismo questo ruolo è (per forza di cose) venuto meno. E il panorama politico italiano ne è risultato sconvolto. È arrivato Berlusconi, che voleva essere liberale, ma si è rivelato lontano dalle esigenze a tale scopo connaturate; poi è arrivato il PD, con un avvio nato sul passato, in cui i postcomunisti hanno tenuto ferma l’idea del dialogo togliattiano, ma senza PCI…, nonostante che la vicenda della legge sul divorzio, con Pannella che sconfigge proprio i presupposti del famoso “dialogo”, avesse dimostrato che la società italiana era in evoluzione, come dimostrava proprio il fatto che il referendum promosso dalla DC di Fanfani era stato perduto nettamente dai promotori e che era quindi su un nuovo terreno che si doveva operare.
Si è invece proseguito come se nulla fosse successo. La sinistra aveva puntato sullo stato sociale, ormai realizzato, senza intaccare i problemi legati a una condizione dinamica della libertà e delle libertà, insistendo (anche adesso) sull’antifascismo, e dimenticando che tra i motivi dell’affermazione del fascismo c’era stato anche il fatto che Mussolini non aveva trascurato il problema “sociale”, ma - sia pure e a modo suo – lo aveva coltivato.
Oggi così arriviamo alla riduzione dei parlamentari, senza una discussione su cosa questa iniziativa comporti. Sembra che si pensi che non sia quasi un problema politico, e non si avverte invece che si tratta di un attentato gravissimo alla funzione essenziale del Parlamento, cioè al “principio di rappresentanza”: quella di rappresentare il panorama politico nazionale.
Meno deputati e meno senatori ci promettono i 5 Stelle senza che l’altro componente della maggioranza, il Partito Democratico, abbia fatto resistenza su questo punto. E non sappiamo se per disattenzione o per calcolo politico, ma in ogni caso commettendo un errore politico cruciale.
Accenniamo prima all’aspetto più pericoloso per il PD, che mai si è posto problemi del genere, ma che rischi di veder ridotta la sua presenza in parlamento non solo in proporzione alla riduzione del numero dei parlamentari che la riforma costituzionale voluta dai 5 Stelle tenta di realizzare. Rischia molto di più, come rischiano molto di più gli stessi 5 Stelle, qualora nelle prossime elezioni (quanto sarà… ) dovessero continuare a perdere elettori, come è successo alle elezioni europee dello scorso 26 maggio, rispetto alle politiche del 2018.
La consistente riduzione del numero dei parlamentari, infatti, comporta un proporzionale aumento dei voti attualmente necessari per eleggere un deputato o un senatore (in quanto gli elettori restano gli stessi). La conseguenza è che restano colpite le tendenze e formazioni politiche di minor consistenza elettorale, che sono destinate a essere escluse dal parlamento, così privato del contributo di forze politiche che spesso sono portatrici di innovazioni di rilievo. E penso proprio alla vicenda di noi radicali che entrammo per la prima volta in quattro nella Camera (della Repubblica) in occasione delle elezioni del 1976.
Si parla poi molto di democrazia diretta; ma la democrazia diretta non è mai esistita, in quanto anche ad Atene, con la prima democrazia conosciuta, quella creata da Clistene alla fine del sesto secolo avanti Cristo, la popolazione veniva divisa in tribù che sceglievano dieci magistrati, dieci strateghi (per le questioni militari) e cinquecento membri di un consiglio (cinquanta ogni tribù): cioè fin dall’origine la democrazia ha avuto carattere rappresentativo, nel cui ambito ci poi essere (o anche non essere) aspetti di democrazia diretta. Presentare una contrapposizione tra due democrazie è una cosa senza senso.
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