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16/11/24 ore

Società di certificazione o Corte dei conti?


  • Silvio Pergameno

 I continui episodi di malcostume e di malaffare di cui è costellata la vita pubblica italiana cominciano a preoccupare i partiti, in particolare perché tra pochi mesi la consultazione elettorale in calendario potrebbe riservare non poche spiacevoli sorprese.


Le affannose ricerche di tamponamenti, sospinte da non facilmente declinabile timor panico per le probabili conseguenze, fanno comunque emergere due gravi manchevolezze nel ceto politico, o meglio partitico (perché la politica, quella vera, è altro): da un lato l’incapacità di affrontare il problema alla radice e cioè l’assoluta necessità di porre fine allo scandalo del finanziamento pubblico dei partiti, sonoramente bocciato da un referendum popolare, del quale, more solito, la partitocrazia si è fatta ampiamente le beffe, aumentando gli stanziamenti e corredandoli di cospicui proventi ramazzati per vie traverse, e dall’altro la scarsa cultura istituzionale palesata negli sconclusionati tentativi di rammendare in qualche modo gli sgarri commessi.

 

Era stata formulata una proposta, nel tentativo di calmare in qualche modo la protesta dal basso, affrontando il problema sotto il profilo della trasparenza dei bilanci dei partiti ed era sembrato che l’istituto più idoneo a svolgere questo compito potesse essere la Corte dei conti, la giurisdizione contabile che accerta la legittimità e l’economicità della spesa pubblica. E a dire il vero, si era subito temuto che non se ne facesse niente.

 

Ma colpiscono soprattutto le argomentazioni che sono state addotte per schivare il rischio: un controllo da parte di una magistratura indipendente avrebbe intaccato la divisione dei poteri, un principio largamente snobbato dal regime dei partiti, gelosi del potere del quale la storia della Repubblica italiana registra la progressiva concentrazione fuori dalle istituzioni, nei vertici delle formazioni politiche, la più grave delle distorsioni della costituzione perpetrata attraverso un persistente lavorio di interpretazioni finalizzate, protrattosi nel corso dei sessant’anni che ci dividono dall’entrata in vigore della vigente legge fondamentale dello stato.

 

È certo evidente che l’affidamento della vigilanza sulla trasparenza delle spese dei partiti avrebbe dovuto essere effettuata con l’approvazione di apposita legge, al fine di precisare le finalità e i limiti del controllo affidato alla magistratura contabile, che avrebbe dovuto essere finalizzato, per l’appunto, ad assicurare la trasparenza, cioè il rispetto delle leggi e dei regolamenti, la veridicità dei bilanci e la regolarità della documentazione senza entrare, naturalmente, in valutazioni di merito, con il compito specifico di fornire proprio alla Camera e al Senato un documento estremamente utile ai fini dell’accertamento della corretta gestione dei fondi assegnati ai gruppi (e che questi “girano” ai partiti, meccanismo ad hoc che dovrebbe tacitare tutte le critiche…).

 

Come non ricordare che l’istituzione della Corte dei conti del nuovo stato italiano fu voluta proprio da Cavour, quale longa manus del Parlamento? Ma dove si toccano le soglie del ridicolo è nell’espediente che si è tentato di porre in essere al fine di far finta di assicurare la famosa trasparenza, e cioè di affidarla a società di certificazione, come qualche partito già fa, ma che, a parte recenti e non brillanti performance date da organismi del genere, rappresenterebbero la tipica figura del controllato che si sceglie il controllore, a conferma che il potere deve restare dove sta (e non dovrebbe starci, perché proprio questo è il problema).

 

E la vicenda finisce con il rendere ostensiva proprio la magagna che sta al fondo del perverso andamento in cui siamo finiti. La Corte dei conti dovrebbe certificare i bilanci dei partiti, cioè i bilanci di soggetti privati cui i gruppi parlamentari affidano cospicue somme di denaro pubblico: invocare la divisione dei poteri significa allora confermare proprio le distorsioni della costituzione che si sono di fatto affermate, che cioè i partiti hanno conquistato le istituzioni.

 

La cultura liberale, quella che crede nelle istituzioni come soggetti terzi dotati di veri poteri propri da esercitare in condizioni di indipendenza – assicurata anche nei confronti dei partiti e quindi prima di tutto in sede di elezioni dei singoli rappresentanti del popolo, chiamati a rispondere dei loro comportamenti -, è stata ampiamente snobbata, soprattutto dalla cultura di impronta marxista; ma oggi, siamo tentati di osservare, si vendica e solleva la protesta popolare. Solo che chi è causa del suo mal, pianga se stesso.


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