Nella seduta di giovedì 11 luglio, con 180 voti favorevoli, il Senato ha approvato in seconda lettura la modifica degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, portando i parlamentari da 945 a 600. Per renderla definitiva manca solo l’ultimo pronunciamento della Camera dei Deputati, previsto per la fine del mese: la legge di riforma costituzionale è stata voluta dall’attuale maggioranza di governo tra 5Stelle e Lega, ma ha avuto il consenso anche del partito di Giorgia Meloni. Contrarie le opposizioni di sinistra, mentre Forza Italia non ha partecipato al voto.
Gli esponenti del governo parlano di risultato storico, poiché hanno condotto in porto una riforma da tempo perseguita. A dire il vero c’è da domandarsi quale sia la rilevanza di un cambiamento del genere, dal momento che interviene soltanto sul numero dei rappresentanti da eleggere, trascurando completamente i nodi problematici di sempre della nostra Legge fondamentale: il grado di rappresentatività e la capacità di governo delle istituzioni.
A meno che davvero si creda nel valore supremo della limitazione dei costi derivante dalla diminuzione dei parlamentari, come ha dichiarato il vice-premier Di Maio secondo il quale così “Tagliamo ai politici e ridiamo al popolo, che si riappropria di soldi che erano suoi”. Se queste sono le motivazioni, allora anche 600 rappresentanti possono risultare troppi, specie poi se il Parlamento viene sempre più svuotato dalle sue funzioni e se sui suoi seggi siedono persone prive della capacità di trovare soluzioni davvero praticabili ai tanti problemi che viviamo.
Il provvedimento è figlio della lunga transizione iniziata dopo il 1992 e di fatto ancora in corso, quando ha trionfato l’anti-politica e le circostanze hanno portato il ceto politico ad attorcigliarsi attorno alle leggi elettorali per risolvere una crisi che era ben più profonda e investiva il nostro stesso ordinamento costituzionale.
L’anomalia del nostro sistema consiste nel fatto che, a differenza delle altre nazioni europee, l’Italiaha adottato un sistema istituzionale ibrido, non optando né per il premierato – sul modello tedesco o britannico – né per la repubblica presidenziale alla francese. La convivenza di un Presidente del Consiglio dai ridotti poteri con un Presidente della Repubblica, privo della consacrazione del voto diretto del popolo, ma dotato di ampie facoltà di indirizzo e di decisione, provoca uno squilibrio insostenibile.
Squilibrio che si è ulteriormente aggravato dopo l’introduzione di leggi elettorali con premio di maggioranza, in quanto gli ultimi inquilini del Quirinale sono stati eletti – dopo il quarto scrutinio – da maggioranze assolute delle assemblee che, a causa del premio, non corrispondevano affatto alla maggioranza del corpo elettorale.
Questi caratteri sono da tempo presenti nel dibattito pubblico, ma ciononostante nessuno se ne dà per inteso. Eppure già ai tempi della fine della prima Repubblica, nel libro-intervista Hanno ammazzato la politica(uscito nel febbraio 1993), il direttore di «Quaderni Radicali» Giuseppe Rippa, a proposito della crisi politica, avvertiva come “qualunque stratagemma di iscriverla sul terreno minimalistico delle riforme elettorali è assolutamente improprio”. E precisava subito dopo: “Spesso viene citato il caso della Quinta Repubblica francese, come esempio di una rigenerazione politica avvenuta attraverso l’adozione di un nuovo sistema di voto. Ma in realtà ciò non corrisponde al vero, perché la riforma elettorale fu solo la tappa conclusiva di un più radicale cambiamento istituzionale, che trasformò il passato regime parlamentare in presidenziale”.
Spostando l’obiettivo sulle leggi elettorali, fra l’altro in un gioco al ribasso per cui quelle adottate sono state l’una peggio della precedente, si è di fatto entrati in un territorio di ambiguità e favorito un processo di restaurazione.
Infatti, sempre Rippa lo prefigurava già quando afferma: “appare… piuttosto difficile che una qualunque modifica del voto riesca a ridurre l’influenza delle élites dominanti. Tutt’al più servirà a perfezionare e semplificare la loro egemonia, poiché nel generale e fisiologico processo di destrutturazione che stiamo vivendo non inciderebbe affatto sui vecchi parametri”.
A oltre un quarto di secolo dall’edizione di Hanno ammazzato la politica, le considerazioni esposte allora trovano oggi ulteriore conferma.
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