Nel complicato incrocio tra mafia, magistratura e politica, il nocciolo della questione resta sempre quello indicato da Leonardo Sciascia nel famoso articolo del 10 gennaio 1987 che prendeva le mosse dalla lettura del saggio di C. Duggan sulla mafia durante il Fascismo: se le istituzioni prescindono dal sistema di regole proprie dello Stato di diritto per contrastare la criminalità, non solo quest’ultima non sarà davvero battuta ma condizionerà senza rimedio la vita pubblica.
Come i poteri eccezionali dati al prefetto Mori nel 1924 furono usati per regolare i conti dentro il fascismo siciliano, utilizzando i “campieri” contro le bande più sanguinarie e aprire così all’accordo con gli agrari dell’isola, altrettanto poteva accadere nella Repubblica – avvertiva lo scrittore – laddove si determinavano le condizioni di una indebita “immunità” dalle critiche per quanti esibivano la medaglia di antimafiosità e di una deviazione dalle procedure (sia processuali che di carriera) che alla lunga avrebbe minato la coerenza dell’impianto giuridico dello Stato.
Com’è noto l’articolo sui “professionisti dell’antimafia” costò a Sciascia aspre critiche, che amareggiarono non poco i suoi ultimi due anni di vita. Quanto è avvenuto in seguito ha fornito più di una conferma ai dubbi espressi dallo scrittore, tanto che molti dei suoi critici hanno attenuato le loro contestazioni correggendo in parte i loro giudizi.
Persino Giancarlo Caselli, decisamente non favorevole a Sciascia, gli concedeva a trent’anni da allora sul «Fatto quotidiano»che forse fu indotto in errore da un “suggeritore”. Caselli fa riferimento alla nota del Csm citata da Sciascia nel suo articolo del 1987, dove si giustificava la nomina di Borsellino a procuratore di Marsala a prescindere dai criteri di anzianità fino allora seguiti.
Sciascia, per Caselli, avrebbe in quel modo contribuito a porre fine alla stagione del pool di Palermo e, indirettamente, fornito agli avversari di Falcone nel Csm il pretesto per bocciarne la candidatura alla successione di Caponnetto preferendogli un magistrato con più anni di carriera.
Peccato che la bocciatura di Falcone non era dovuta ai rilievi dell’articolo di Sciascia, ma alle rivalità interne alla stessa magistratura e che proprio il trattamento riservato a Falcone dai colleghi costituisca la riprova che lo scrittore aveva ragione. Forzare e piegare le norme non è mai un bene se ciò avviene entro le logiche di una lotta di potere, perché mortifica lo Stato di diritto e porta i soggetti istituzionali a comportarsi secondo le logiche proprie di quel mondo criminale che dovrebbero combattere.
I nodi problematici di trent’anni fa sono tuttora intatti e riaffiorano, ancora irrisolti, nelle vicende dell’odierna cronaca politica e giudiziaria. Oggi che un’inchiesta della Direzione Investigativa Antimafia lambisce il sottosegretario Siri, il Movimento 5 Stelle ripropone la stessa posizione che fu del Comitato anti-mafia degli anni Ottanta.
All’epoca, sulla scia del gesuita Pintacuda, lo slogan “il sospetto è l’anticamera della verità” si impose nella coscienza collettiva. Poco servì che Falcone replicasse come tutt’al più “il sospetto era l’anticamera del khomeinismo”: il primo a farne le spese fu proprio il magistrato siciliano, prima accusato dai “professionisti anti-mafia” di non fare i processi e poi, una volta isolato, esposto all’esecuzione avvenuta a Capaci.
Che ancora oggi si rilascino interviste ove si sostiene che esprimere posizioni garantiste significa dichiarare la disponibilità a essere collusi con la mafia, ci dice quale grado di contaminazione abbia subito il dibattito pubblico sulla criminalità organizzata. E conferma che quando gli inquirenti operano a “ricalco” delle logiche criminali, assumendo il diritto del “nemico”, si abbandona lo Stato di diritto e si introducono nella vita civile cellule tumorali che la devastano del tutto.
Chiediamoci qual è stato l’esito di un trentennio di questa pratica, sul piano dei risultati effettuali della lotta al crimine. Scopriamo che gli assassini di Falcone e Borsellino sono per lo più liberi perché godono dei benefici riservati ai collaboratori di giustizia; che sulla poltrona di sindaco di Palermo che fu per sei mesi di Ciancimino, per diciannove anni ha seduto e siede tuttora Leoluca Orlando, l’accusatore di Falcone; che esponenti di rilievo dell’antimafia cosiddetta sociale (dal dirigente di Confindustria Montante al presidente di Confcommercio Helg) risultano coinvolti in azioni illecite; che gli stessi magistrati addetti alla confisca dei beni sequestrati ai criminali sono sotto accusa per gli abusi compiuti, dopo aver agito per anni in modo indisturbato proprio perché avvolti nell’aura della lotta alla mafia.
Sciascia non fu profetico, ma soltanto logico: la retorica dell’antimafia da vetrina, delle lenzuola appese, non poteva che portare a queste conseguenze nel contesto di un Paese deprivato di verità ed esposto a un conflitto tra poteri.
Come prima l’ignavia e l’indifferenza garantirono alla mafia di esercitare un ruolo incontrastato, altrettanto può dirsi sia avvenuto dopo quando i riflettori sono stati accesi sino al punto di accecare con la loro luce bianca.
Il “tutto è mafia” di oggi fa così da contraltare a “la mafia non esiste” di ieri, chiudendo il cerchio di una vacuità dell’azione che non può non spingere a domandarsi se sia solo frutto di inconsapevolezza ...
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