Matteo Renzi, come noto, in vista delle “primarie” del centrosinistra, ha debuttato a Verona come aspirante premier. Diverse le parole d’ordine: “speranza” (un po’ alla Obama), “adesso” e lo slogan programmatico “Europa, futuro, merito”. Messaggi a loro modo seducenti, non privi certo di fascino. E inoltre, a coloro che lo accusavano di avere un progetto (soprattutto personale) ma non un programma, ha replicato con un’agenda in apparenza assai articolata. In realtà, proprio quei punti che sembrano tanto dettagliati celano la debolezza della visione, del “metaprogramma”.
Fanno difetto, detto altrimenti, la chiarezza, la profondità e il rigore della diagnosi dei mali dell’Italia e dei rimedi di fondo per affrontarli. Un esempio: il Partito democratico è combattuto fra pulsioni e rigurgiti neo-operaisti (si pensi alle posizioni di Sergio Cofferati e di altri riguardo ai quesiti referendari in tema di diritto del lavoro) e istanze liberali.
Un’operazione politica credibile esigerebbe allora una presa di coscienza senza equivoci di ciò e la conseguente elaborazione di una linea netta volta all’affermazione definitiva di quelle istanze (come provano a fare altri soggetti, pur minoritari, presenti sulla scena politica e culturale del paese). Con tutti i rischi e il coraggio che questo comporterebbe, naturalmente!
Renzi, invece, prova ad affrontare la sfida “a pezzi”, come già troppe volte accaduto in passato: dimenticando che in tal modo spinte e forze corporative e conservatrici trovano sempre il modo per riproporsi e condizionare scelte e comportamenti. E confondendo la gradualità e il senso della realtà, assolutamente indispensabili, con la rinuncia, nei fatti, ad affrontare l’aggrovigliata questione liberale con la lucidità e l’onestà necessarie.
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