C’è qualcosa di peggio del rancore ed è l’ipocrisia. Del rancore si dice che è sterile e che non porta a nulla. Ma l’ipocrisia, il tartufismo inganna: contrabbanda per esistente quello che non è, per vero ciò che è falso. Rancore e ipocrisia sembrano oggi le disposizioni prevalenti all’interno del Partito Democratico e non meravigli che si affronti la questione a partire da considerazioni che attengono ai comportamenti personali, piuttosto che le dinamiche politiche. Il punto è che con il sopravvento del cosiddetto leaderismo sui partiti come li conoscevamo, molto si gioca proprio sulla natura delle persone.
All’indomani della convenzione del Lingotto, voluta da Renzi per rilanciare l’iniziativa del PD dopo la scissione di gran parte della componente ex Pds, i commenti si soffermano non a caso su interpretazioni al limite della psicanalisi: parlano di padri che abbandonano la casa perché in contrasto coi figli, i quali – a loro volta – vantano rapporti migliori coi “padri dei padri” come ha detto il presidente PD Orfini.
Ma al di là di questo cosa rimane? Rimane l’evidente incapacità non solo di affrontare i problemi impellenti del Paese, ma perfino di istruire quel minimo indispensabile di onesta osservazione dello stato delle cose, che è preliminare a qualunque altro intervento. Se da un lato l’avversione a quella che hanno percepito come “mutazione genetica” del patrimonio originario, porta gli scissionisti a riproporre stancamente visioni e modalità di una presunta sinistra “rosso antico”; dall’altro, la maggioranza raccolta attorno a Renzi non riesce proprio a far dimenticare il cumulo di post-verità e fandonie che ha diffuso a piene mani, per essere poi punita con il voto del 4 dicembre scorso. E poco serve per salvare lo spettacolo introdurre, sul palcoscenico bersagliato dagli ortaggi di un pubblico deluso, l’esuberante balletto delle sciantose.
Dopo anni di rincorsa giustizialista, ci si scopre talmente “garantisti” da esprimere solidarietà alla sindaca di Roma “solo” indagata. Ma solo poco tempo fa bastava qualche articolo di giornale su orologi regalati e telefonate tra morosi, per decapitare ministri e alleati giudicati zavorre. Le recenti dichiarazioni della leadership democratica, al pari delle calorose accoglienze a Emma Bonino lasciano il tempo che trovano: non siamo di fronte nemmeno a esempi di spregiudicatezza, ma semplicemente a un camaleontismo di natura patologica. A maggior ragione se questa confusa mutevolezza è contraddistinta non soltanto da velleità, ma da una intrinseca volontà a spacciare per riforme o cambiamenti quelli che non sono altro che estremi espedienti per conservare vantaggi di parte.
Quale credibilità si potrà mai avere se si è privi persino dei criteri minimi per un approccio riformatore? Dal fisco alla scuola, dalla giustizia al lavoro il PD di Renzi ha ampiamente dimostrato di non possedere questi criteri. Ha scambiato per perequazione fiscale gli 80 euro elargiti in base alle soglie di reddito individuale, trascurando famiglie monoreddito o con prole numerosa; per meritocrazia la selezione clientelare affidata ai dirigenti scolastici; per snellimento del sistema di assunzioni le esenzioni temporanee alle aziende dal pagamento dei contributi previdenziali. Tutti provvedimenti che di certo non hanno sottratto l’Italia alle ingessature che la limitano, né tanto meno hanno apportato alcun miglioramento.
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