È da Mani Pulite che in Italia vige in pratica la presunzione di colpevolezza, per cui si sbatte il mostro in prima pagina e si procede al giudizio sommario mediatico-giudiziario che rovina vite private e stronca carriere politiche e non, in attesa che il tempo compassato della “giustizia” si compia, magari – chissà - con una sonante assoluzione. Non si contano, infatti, esempi del genere dai tempi gloriosi del Pool dipietrista ai giorni nostri, cosicché la vicenda di Penati sul sistema tangentizio di “Sesto”, conclusasi col fatto che non sussiste, rappresenta solo l’ennesimo caso di specie che non fa nemmeno più scuola.
Il colpo di scena è avvenuto nel corso del processo, grazie alla ritrattazione delle accuse all’ex presidente della Provincia di Milano da parte dell’architetto Renato Sarno, ritenuto dalla Procura il collettore di tangenti per conto di Penati e della sua fondazione Fare Metropoli.
Ciò conferma l’altra anomalia, purtroppo non rara nel Belpaese, sui processi sostanzialmente messi in piedi senza le prove a suffragio della confessione che diventa pertanto l'architrave fragile del castello accusatorio.
A tal proposito, sono significative le parole – riportate in un articolo del post.it che ricostruisce la storia - con le quali Sarno ammette che le sue "furono dichiarazioni figlie di un mio stato psicologico deteriorato”. “Ero in carcere – racconta - per un’imputazione [la presunta tangente ricevuta da Edoardo Caltagirone per il recupero di un’area della ex Falck] ma era come se fossi detenuto per altre questioni. Ero in uno stato di pena e disagio". Interrogato «in manette».
E qui viene al pettine un altro dei tanti nodi della Giustizia italiana: l’uso ambiguo e disinvolto della carcerazione preventiva, quale strumento per estorcere con metodi discutibili “confessioni” utili alla tesi accusatoria, piuttosto che un modo per evitare l’inquinamento delle prove e la reiterazione del reato.
E qui di reiterato, invece, sembra esserci ben altro…
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