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17/11/24 ore

Riforma del Senato, Napolitano-Scalfari: un dialogo sostenuto


  • Silvio Pergameno

La prima, torrida, metà di questo agosto si sta rivelando un tempo politico segnato da due fatti di particolare rilievo in tema di riforme: lo scambio di vedute - a distanza – tra Giorgio Napolitano ed Eugenio Scalfari e lo scossone verificatosi all’interno della corrente degli anti-renziani del PD. Qui esprimo alcune considerazioni sul primo dei due temi, con riserva di intervenire sul secondo.

 

Il Corriere della Sera dello scorso 6 agosto ha pubblicato una lettera nella quale Napolitano sottolinea il fatto che la fine del bicameralismo - il risultato più rilevante che il nuovo “Senato delle istituzioni territoriali” è destinato a produrre – è già stata approvata nelle due letture previste dall’art. 138 della Costituzione, ha precedenti lontani ed è stata condivisa da eminenti studiosi in sede di Commissione; tale natura del nuovo Senato si rivela incompatibile con un’elezione diretta a suffragio popolare e metodo proporzionale dei nuovi senatori (come ora chiede insistentemente la minoranza PD). Non è ammissibile, prosegue l’emerito Presidente , che si possa adesso addivenire a scelte rischiose per le sorti di una riforma fin troppo tardiva, di cui l’Italia e la democrazia repubblicana hanno fin troppo bisogno: saranno certo possibili modifiche e puntualizzazioni utili, ma non dirompenti, non puri artifizi polemici, che diventano strumenti di paralisi, su questioni di indirizzo politico o di metodo di governo o nel rapporto Governo/Parlamento, che vanno poste nelle sedi appropriate.

 

Ha replicato Eugenio Scalfari tre giorni dopo su Repubblica, osservando che per Napolitano, per sua antica convinzione, la riforma va approvata così come è: un Senato autorità di controllo e rappresentanza territoriale, senza poteri legislativi nazionali e composto di cento membri. Per Scalfari è giusto togliere al Senato il potere di dare la fiducia al Governo, ma gli altri poteri legislativi di cui è oggi titolare debbono restare integri, perché la nostra è una repubblica parlamentare e la linea politica è indicata dal Parlamento, mentre al potere esecutivo spetta il solo compito, come dice il suo nome, di tradurre in atti esecutivi coerenti con la linea indicata dal Parlamento, che rappresenta il popolo sovrano. Di conseguenza, continua Scalfari, il sistema elettorale deve essere analogo” per entrambe le Camere, anche se non “identico”, a cominciare dall’età dei componenti e da altre accettabili difformità; il Senato può anche scomparire, dandosi luogo a un sistema monocamerale – come in molti paesi europei - , ma allora le elezioni debbono essere totalmente libere e dar luogo a una fedele rappresentanza del popolo sovrano, mentre l’ “Italicum” (la nuova legge elettorale voluta da Renzi) produrrebbe un sistema di “nominati dal governo”, con un potere legislativo declassato e subordinato al governo e un presidente del Consiglio che comanda da solo ….l’anticamera dell’autocrazia.

 

Con una nuova lettera, questa volta indirizzata direttamente a Scalfari (e pubblicata da Repubblica l’11 agosto) Napolitano è tornato sulla questione insistendo sulle sue posizioni, sottolineando il fatto che la necessità di rivedere il bicameralismo paritario emerse già subito dopo l’entrata i vigore della Costituzione e si è protratta fino al governo Letta (con le due nomine, una presidenzale di un Gruppo di lavoro e l’altra parlamentare della Commissione Quagliariello). Il Presidente emerito si chiede come si possa ritenere che la riforma in corso segnerebbe la fine del regime parlamentare, quando proprio il centro sinistra era stato favorevole al passaggio al “premierato” (Governo del primo Ministro) nel 1997 (al tempo della Commissione D’Alema). Se poi il nuovo Senato fosse eletto a suffragio universale, prosegue Napolitano, come si potrebbe togliergli il potere di votare la fiducia al Governo? Infine, conclude l’ex Capo dello Stato, il nuovo Senato arricchisce la democrazia repubblicana di una nuova istituzione sinora inesistente, che rappresenta le istituzione territoriali e soddisfa la necessità di superare il bicameralismo paritario, con tutte le fragilità e la debole capacità deliberativa dell’esecutivo. l’incertezza e la tortuosità dei processi di approvazione delle leggi, la crisi del rapporto Governo/Parlamento, le spirali dei decreti legge e dei voti di fiducia… non farsi dominare dalla paura dei pericoli, che può far naufragare per l’ennesima volta il processo riformatore.

 

Ed è stata poi ancora la volta di Eugenio Scalfari (Repubblica del 12 agosto), il quale apre con una considerazione di carattere generale non nuova in materia di riformabilità della costituzione ai sensi dell’art. 138. Non sarebbe infatti consentita, secondo questa interpretazione, una trasformazione radicale della nostra struttura politica, come quella che la riforma in corso vuole attuare, ma solo la correzione di aspetti marginali dei principi e valori intangibili della Carta. Principi e valori, prosegue Scalfari, alcuni sicuramente invecchiati e rivelatisi insufficienti di fronte alle evoluzioni internazionali, sociali, scientifiche, tecnologiche; e proprio per questo ci sono state i tentativi delle Commissioni Bozzi, Iotti, De Mita, D’Alema e forse altre e da ultimo quella voluta proprio da Napolitano. La riforma in corso del Senato e l’italicum mutano tanto radicalmente l’assetto istituzionale della Repubblica, attuano una riscrittura della Costituzione, (per la quale sarebbe invece necessaria una nuova Costituente) che prevede l’abolizione delle due Camere, introduce un nuovo sistema monocamerale con un meccanismo che concede al premier di nominare un numero ragguardevole di capilista, un vero premierato al posto del Presidente del Consiglio [un Primus inter pares] e un sistema elettorale che al posto della proporzionale destina un premio di maggioranza al partito che raggiunge il 40% dei voti (quale che sia il numero degli astenuti). Scalfari aggiunge poi che il Senato potrebbe anche essere abolito, dato che per rappresentare regioni e comuni ci sono già diverse Conferenze. La sola Camera quindi delineerebbe la linea la potere esecutivo ecc. ecc.: sistema anche compatibile con un premierato, ma con un premier che ad esempio può cambiare un ministro senza che si debba ricorrere a un voto di fiducia, ma non certo se il premier adotta una politica diversa da quella voluta dalla Camera; può cambiare anche una maggioranza, come è avvenuto tante volte nel corso della prima Repubblica.

 

Cosa pensare adesso della riforma e più ancora dei suoi oppositori? Quando si ebbe la prima notizia del progetto, esprimemmo un avviso limitato al merito della fisionomia del nuovo Senato, che veniva proposto, nel senso che assomigliava a quello tedesco, che era positivo il fatto che soprattutto le regioni venissero immesse in un luogo istituzionale di responsabilità nazionale, che poteva essere un meccanismo per metterle a contatto con i problemi derivanti dalle loro politiche nelle sedi locali, mentre viceversa le autorità nazionali potevano meglio venir a conoscere continuativamente l’andamento concreto delle autonomie. Restava il dubbio sul fatto che la vigilanza sull’andamento delle cose locali restasse affidato in buona misura a personale che è proveniva direttamente dai luoghi istituzionali locali.

 

Oggi, anche a seguito del corso degli avvenimenti, ci troviamo di fronte a un provvedimento di livello costituzionale che contiene elementi di riforma, e soprattutto l’abolizione di un Senato con metodo elettorale e con poteri uguali a quelli della Camera dei deputati e alla creazione di un corpo che mira a collegare le autonomie al livello nazionale, corrispondendo a un’esigenza di grande rilevanza, proprio per il funzionamento complessivo dello stato. E nel quadro generale questa riforma è stata accettata dal Parlamento, Gli sviluppi in atto, con le resistenze scaturite in seno al fronte antirenziano della minoranza del PD, confermano l’esistenza di un fronte della conservazione che rinnova i fasti dell’immobilismo democristiano: la preoccupazione di fondo si rivela la sempre la stessa: la volontà di non riconoscere l’esigenza di un rafforzamento dell’esecutivo per fare del Governo un vero potere istituzionale, esigenza poi, che nella realtà, sotto la spinta delle esigenze di governo, che sono particolarmente forti in una situazione politica nazionale e più ancora internazionale, trova, comunque, le sue strade, ma in forma distorta e con esiti distorti: la Repubblica dei partiti è franata ed è stata sostituita dalla repubblica delle correnti, dei gruppi e dei gruppuscoli, ognuno dei quali lotta per la sopravvivenza. E al di là delle motivazioni di fondo, proprio questo aspetto dimostra una presenza molto vivace.

 

Da oltre trent’anni ogni tentativo di introdurre qualche riforma nell’ordinamento è stato sepolto prima di arrivare in Parlamento; questa volta una riforma in Parlamento ci è arrivata, ha percorso la sua strada ed è sulle soglie di un’approvazione definitiva; ed è una riforma che tocca un punto sensibile. Non si spiegherebbe, se non altro, l’accanimento dei resistenti. Il rischio è che, in assenza dell’avvio di un ragionato processo riformatore, la situazione si avviti su se stessa dando luogo a una spinta autoritaria incontenibile e attuata ai livelli più bassi. Non basta evocare le paure.

 

Il rafforzamento dell’esecutivo realizzato in Francia da De Gaulle nell’ottobre del 1958 ha introdotto un processo di razionalizzazione nella gestione dello stato (anche se non ha risolto il problema di fondo del rapporto fra democrazia e stato nazionale, come si auspicava) e ha consentito proprio la formazione di governi di sinistra in un andamento di alternanza fra forze politiche di opposti schieramenti.

 

Quanto poi alle considerazioni di Eugenio Scalfari sul nostro regime parlamentare, la prima osservazione che esse provocano è che nella vera lettura della costituzione e non in quella che di fatto è prevalsa, esso non è certo la disastrosa forma di assemblearismo venuta in essere sotto la spinta del superpotere dei partiti, e che sempre di più si è sostanziata nel consociativismo spartitorio che è sotto i nostri occhi e che rappresenta il terreno di coltura in cui prospera la diffusa corruzione in atto. La costituente non ignorò la storia dell’avvento del fascismo e dette vita a un sistema parlamentare corretto dalla figura e dal ruolo del Presidente della Repubblica, e che affida al Presidente del Consiglio il compito di dirigere la politica del Governo, mantenendo l’unità di indirizzo politico e coordinando l’attività dei ministri. Non è un mero primus inter pares. (Costituzione – titoli II e III della parte 2^). Il Parlamento esprime la fiducia, la fiducia su quel che il governo propone e fa. Non c’è scritto che il Parlamento detti una linea al Governo, una sorta di breviario da tradurre in atto. E sarebbe una macroscopica assurdità. Tanto più che non si vede veramente quale “linea” un Parlamento come l’attuale sarebbe in grado di dettare.

 

Il sistema dei partiti è crollato sotto i colpi di tangentopoli, una forma di supplenza che ha reso visibile e operante la crisi che li aveva investiti. Dietro le prese di posizione di Napolitano chi scrive intravede questo inestricabile groviglio.

 

 


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