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14/11/24 ore

Opposizione e informazione


  • Silvio Pergameno

Il fondo e la spalla del Corriere di ieri, sette maggio, rendono necessarie alcune osservazioni, che, per quanti si riconoscono nella tradizione radicale (in fondo liberale), appaiono indispensabili. La spalla è dovuta alla penna del columnist Angelo Panebianco, colpevole (?) di qualche ormai lontana frequentazione radicale, il quale, nel commentare l’arrivo dell’Italicum, apprezza il rafforzamento del ruolo del governo che la legge persegue, ma pone il problema dell’assenza di una vera opposizione; il fondo è il saluto ai lettori del nuovo direttore del quotidiano di via Solferino, Luciano Fontana (del tutto immune da rischiose frequentazioni…) che esalta il ruolo di un’informazione libera, indipendente, onesta, severa sempre svolta dal quotidiano, alla quale intende tenersi legato.

 

Non c’è nel Parlamento un vera opposizione, è il senso di quanto si ricava dal primo dei due interventi; diciamo di più non c’è una vera opposizione nemmeno nella cultura del Paese, nel presupposto di una divisione dei ruoli tra parlamento e governo, cioè dei poteri, perché, dice Panebianco l’opera dei costituenti, allergici al potere governativo, ha dato luogo a un sistema di contrappesi senza pesi, a un governo debole accerchiato da una pluralità di forti poteri di veto. E opposizione rischia di frantumarsi, perché lo sbarramento del 3% è troppo basso.

 

Lasciamo da parte la spinosa (e non ignorata) questione di che cosa dica in merito la costituzione, ma oggi è senz’altro così. Cioè, osserviamo, una democrazia liberale (liberaldemocratica) in Italia non c’è; come mai? Siamo allora fuori dalla democrazia? Da ogni democrazia? Democrazia vuol dire governo di popolo, il governo cioè ci vuole, prima osservazione, ma come opera?

 

Nell’antica Atene il popolo (che erano poi gli ateniesi) governava radunandosi in piazza; nell’epoca moderna governa tramite le istituzioni nelle liberaldemocrazie, oppure attraverso il partito, nelle democrazie cosiddette popolari (non è una tautologia) e in Europa attraverso i “fronti popolari” nei quali converge appunto il popolo, anche – almeno inizialmente - attraverso le sue espressioni in più partiti, purché degni di essere ritenuti “popolari”, lasciando fuori la reazione.

 

L’idea di un governo dotato istituzionalmente di poteri effettivi è estranea a questa concezione e l’opposizione è vista nel quadro istituzionale con un ruolo di contropotere (rivoluzione compresa), se i partiti “popolari” sono fuori dal governo; se invece sono al governo, più sta zitta e meglio è.

 

Poteva nascere un’opposizione in queste condizioni? E, soprattutto, quanti si sono considerati e si considerano liberaldemocratici quanto hanno fatto per costruirla un’opposizione nei settant’anni che ormai ci dividono dalla fine del secondo conflitto mondiale? Lo chiediamo sine ira ac studio, ma con un obbiettivo di verità.

 

Il compito era loro, proprio di fronte alla condotta del maggior partito della sinistra, il cui frontismo era fatalmente destinato, nello scivolamento giorno dopo giorno da un grande ruolo storico alla banalizzazione consociativa, a preparare da un lato il terreno più fertile per il degrado istituzionale che oggi affligge il paese, con tutte le conseguenze che vi si riallacciano, dall’altro a impedire in seno alla sinistra un dibattito in profondità, fondamento di una Bad Godesberg, la cui assenza la sinistra paga oggi nel conflitto che la dilania.

 

A cosa si sia ridotto con il trascorrere del tempo il quadro togliattiano del dialogo con i cattolici, perno della via nazionale al socialismo, era – dal punto di vista del PCI - un impianto politico tutt’altro che privo di storica dignità, solo che, nel suo malposto realismo, trascurava soprattutto il ruolo del Concordato, un patto dello Stato con una Chiesa che proseguiva, per quanto possibile, il secolare temporalismo, e non meno il fatto che la DC fanfaniana era assai lontana dal popolarismo di Sturzo.

 

È stato il tallone di Achille della sinistra. Lo abbiamo sperimentato dalla fine degli anni sessanta in poi nelle battaglie radicali per i diritti civili, quando, prima di tutto, la battaglia per il riconoscimento del divorzio – già portata in Parlamento da un progetto socialista – non andava mai avanti perché non si poteva litigare con la DC, una battaglia nella quale i radicali hanno combattuto un ruolo di opposizione, prima di tutto nel paese e con metodi non violenti e con una precisa finalità istituzionale. Un’azione politica ben lontana (allora) dal ribellismo violento e inconcludente di una lotta armata, generata nell’abisso tra il massimalismo dottrinario delle premesse e il compromesso nei fatti (e storico solo di nome) e altrettanto lontana oggi dalla dimensione ribellistica che si fa populismo altrettanto inconcludente nella formazione pentastellata.

 

Opposizione? E veniamo al fondo del nuovo direttore del Corriere della Sera, che attribuisce al quotidiano virtù che, proprio nella nostra storia, non riusciamo a riscontrare e delle quali auspichiamo si faccia egli stesso portatore. Ovviamente al Corriere rimproveriamo non certo la linea editoriale, rimproveriamo i silenzi, dietro i quali è venuta costruendosi una condizione nazionale dalla quale il nostro paese stenta a uscire, come è sotto gli occhi di tutti, e nella quale l’assenza di un’opposizione degna di questo nome rappresenta uno dei tratti più significativi. Nelle righe che precedono si chiarisce il senso del nostro sofferto disappunto.

 

 


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