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16/11/24 ore

Una lezione dall'Argentina


  • Silvio Pergameno

L’Argentina che rischia di venire travolta da uno dei grandi “vulture fund” (fondi avvoltoio) può facilmente ridar fiato alle sirene dell’anticapitalismo tradizionale, dottrina e ideologia che però non appare in grado di fornire risposte sufficienti e credibili, dopo la catastrofe del capitalismo di stato.

 

Questa corrente di pensiero è ampia e variegata in tutto il mondo, e trova sostenitori motivati certamente da ragioni di potere politico e economico, accanto alle quali, però, e di regola ad esse frammiste, esistono vasti settori di opinione ispirati da ragioni obiettive e soprattutto spinti dalla necessità di tutelare interessi che non possono essere trascurati, quelli delle vittime incolpevoli della speculazione finanziaria, sulle quali finiscono con il riversarsi le conseguenze più drammatiche delle crisi, con conseguenti rischi di gravi sommovimenti.

 

Nel caso ricordato l’”avvoltoio” è Paul Singer, proprietario del fondo Elliott, che nel 2001, all’epoca della grande crisi argentina, comperò per 182 milioni di dollari titoli del debito argentino del valore nominale di 2 miliardi e 300 milioni di dollari (cioè quello che il debitore aveva riscosso con la sottoscrizione dei titoli e si era impegnato a ripagare ai sottoscrittori, alla scadenza del prestito). Singer vuole che l’impegno sia onorato e fa anche presente che il peso si è parecchio svalutato; il creditore vuol essere pagato con soldi buoni.

 

La scadenza è arrivata, ma l’Argentina non sa come fare: i soldi non ci sono. In quasi tutti i paesi, in gran parte degli stati europei e in genere nei paesi in via di sviluppo, in quelli che si pongono obbiettivi sociali avanzati, la spesa pubblica è strumento di potere e di vittorie elettorali, e se non ci sono i soldi si ricorre ai prestiti, da rimborsare con interessi.

 

I paesi emergenti hanno poi realizzato una considerevole crescita economica per effetto del commercio estero, molto alimentato dalle importazioni degli Stati Uniti, che però adesso hanno cominciato a tirare i cordoni della borsa. E i guai si fanno sempre più grossi. I creditori hanno fatto conto sulla parola dei debitori e proprio Singer ha vinta negli USA la sua causa nei tribunali ordinari e ora la questione è davanti alla Corte suprema federale. E, come tutti, Singer ha anche lui sicuramente in suoi creditori, da affrontare con i soldi che dovrebbero arrivare dai pagamenti che aspetta dai suoi debitori. Già…

 

Ma si può abbandonare alla disoccupazione di massa e alla fame milioni e milioni di persone, aprire la strada a disordini e rivolte senza fine, con il rischio di sanguinose guerre civili? Si possono trattare con le stesse regole rapporti che nella qualità e nella portata presentano differenze che è poco definire abissali?

 

La dottrina economica e la prassi politica hanno elaborato al riguardo complessi interventi, per evitare che le forze economiche siano abbandonate a loro stesse e alla tendenza alla vittoria dei più forti, che possono diventare, e sono anche diventati, più forti di tantissimi stati: la democrazia finisce!

 

Occorre poi tener conto del fatto che le strutture produttive nell’economia del tempo attuale richiede forti concentrazioni di capitale, per cui la prima delle condizioni per assicurare la possibilità stessa di mercati concorrenziali è che si tratti di mercati vastissimi: in un piccolo stato anche una sola grande impresa muore asfissiata.

 

Anche per quanto concerne i consumi interni. Livelli di consumo che siano, cioè, in grado di garantire in ogni caso l’assorbimento di una buona parte dei beni prodotti e di assicurare il rispetto dell’equazione (keynesiana) y=c+i, il reddito deve essere uguale al consumo più l’investimento, con variazioni mantenute entro limiti e conseguenze tollerabili.

 

Una disoccupazione limitata può essere affrontata con un livello di ammortizzatori sociali che comportino una spesa limitata; altrimenti le imposte necessarie per coprirla si mangiano i soldi da investire. In Europa oggi, ad esempio, nessuno dei paesi europei da solo può offrire un mercato adeguato ai tempi attuali: ne consegue allora la tendenza all’allargamento dei mercati, fino alla completa globalizzazione di alcuni settori.

 

Il che però immette due pesanti fattori di rischio: la variabilità dei cambi tra le varie monete dei diversi stati e l’impossibilità di dettare e far rispettare le regole indispensabili, come si è detto. Ogni stato poi, cioè ogni forza di governo, non vuole cedere sovranità, non vuole cedere potere….

 

Se la moneta unica dell’Europa rappresenta quindi un fattore di stabilità (immaginiamo non soltanto la Grecia, ma anche l’Italia con il suo mastodontico debito pubblico, in mano agli speculatori!) non possiamo però essere tranquilli con una moneta priva di un governo titolare di una politica monetaria, che viene poi esercitata di fatto dallo stato più forte al livello economico, ma alieno, per di più, dal volersi assumere le responsabilità che derivano dalla situazione di fatto e che risponda a un parlamento, che detti le regole: uno stato di diritto, appunto. E’ la folle anomalia con la quale ci avviamo alle elezioni europee.

 

 


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