Con la sola razzia del 16 ottobre 1942 nel ghetto di Roma oltre mille ebrei finirono ad Ausschwitz. Pochi ne tornarono: un momento terribile di quell'olocausto che resterà una macchia nella storia dell'Europa e sulla quale il nostro continente non potrà mai cessare di interrogarsi.
Ma se si vuole che la forza inesorabile del tempo non riduca il ricordo a occasione di routine, occorre che il senso della storia e quello della realtà sappiano leggere l’accaduto per quanto rappresenta nel presente, leggere cioè il fascismo e il nazionalsocialismo dell’entre deux guerres come espressione della crisi e dell’impotenza delle democrazie nazionali del tempo, un’impotenza che i decenni successivi non hanno trovato la strada per superare.
Le democrazie nazionali del continente europeo, infatti, si sono rivelate ben lontane, purtroppo, dal livello dei problemi del nostro tempo e proprio in questo risiedono i rischi cui esse sono esposte. Tanto per fare un esempio di estrema attualità: Piero Ostellino ci ricorda (Corriere del 16 ottobre) che tutte le legislazioni dei paesi europei prevedono il reato di immigrazione clandestina e che dobbiamo pur chiederci perché i migranti arrivino a Lampedusa e non a Gibilterra, a pochi chilometri dall’Africa. Perfetto.
Ma dobbiamo pur chiederci perché anche le regioni più povere dell’Italia del 1917, dopo Caporetto, accolsero migliaia e migliaia di profughi dal Veneto e dal Friuli invasi dagli austriaci…senza tanti calcoli meschini! Dobbiamo pur chiederci perché gli stati nazionali oggi dimostrano di non essere nemmeno in grado di leggere i fatti, figurarsi poi di adottare le misure necessarie a regolarne il corso!
Certo, pensare che l’abolizione del reato di clandestinità risolva tutti i problemi è semplicemente ridicolo, così come è ridicolo pensare che sia quel reato a poter fermare l’esodo di una massa enorme di profughi che fuggono dai massacri di Siria, Somalia, Eritrea….E poi le nostre responsabilità?
Quelle del postcolonialismo assai più di quelle del colonialismo. I rigurgiti neonazisti che esplodono qua e là non rappresentano un problema politico, perché le manifestazioni di anti-democrazia di quello stampo avevano un senso politico negli anni venti e trenta del secolo passato, quando massicce forze politiche, approfittando degli sconvolgimenti causati dalla prima guerra mondiale, ebbero la forza di soggiogare l’intero continente: la seconda guerra ha tolto loro per sempre un qualsiasi peso, e poi i paesi europei dopo il 1945 hanno impostato i loro rapporti su principi di collaborazione proprio nella consapevolezza della necessità di evitare il ripetersi di avventure dagli esiti tremendi.
Il problema sta invece nei limiti che proprio questo assetto presenta oggi, perché frutto di un processo politico che non ha affatto realizzato una vera democrazia all’altezza dei tempi, una democrazia dinamica e sentita profondamente dagli europei: così come gli americani vivono la loro democrazia.
I rischi stanno altrove, non nelle manifestazioni neonaziste, così come, sulla sponda opposta, non sono le esplosioni di intolleranza al di là di certi limiti che rappresentano i fatti su cui commisurare i progressi del postcomunismo o per esprimere un giudizio storico-politico sull’opera di Togliatti.
I rischi, invece, risiedono proprio nella sopravvalutazione, in termini di vera democrazia, delle innovazioni nelle istituzioni interne e nei rapporti intereuropei introdotte nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale in Italia, in Germania e in Francia (cioè nel cuore del Continente); i trattati costitutivi delle istituzioni europee e le nostre costituzioni, quella italiana, il Grundgesetz tedesco o il semipresidenzialismo francese voluto da De Gaulle, che ha sì restituito efficienza formale allo stato, ma non ha certo sanato lo stato comatoso della democrazia dei partiti della vicina Repubblica.
In Francia la prova più palmare delle condizioni critiche in cui essa versa è data proprio dal ripetersi dei successi del Front National di Jean Marie e Marine Le Pen, che nel persistente nazionalismo francese (compresa la componente nazional-giacobina) trova il suo ancoraggio più profondo.
Stesso discorso per i guai dell’Italia o per le “virtù” Germania, i cui successi nel campo economico hanno prodotto un orgoglioso complesso di superiorità nazionale che non può non suscitare perplessità.
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