Matteo Renzi sembrava aver rotto una consuetudine: quella dell’investitura dall’alto. Che si condividessero o meno i suoi progetti e il suo stile, egli era un outsider, e si proponeva prima come “rottamatore” (in un Paese ormai gerontocratico) e poi come modernizzatore, riprendendo lo spirito del “Lingotto”.
Ora invece il suo percorso pare essersi incontrato con quello del quotidiano la Repubblica, a dir poco distante rispetto all’esecutivo delle larghe intese.
Giovedì scorso la visita ad Angela Merkel, quasi a sancire la statura internazionale del sindaco (sulla scia del suggerimento e dell’esperienza di Massimo D’Alema con Helmut Kohl); da ieri in giro per l’Italia per partecipare alle “feste democratiche”, con una sorta di endorsement del giornale fondato da Eugenio Scalfari e sostenuto da Carlo De Benedetti. E proprio ieri la dichiarazione scettica sulla durata del governo di Enrico Letta.
Quella “scalata” che mostrava il volto liberale – la libera competizione di idee, visioni e propositi – di un partito, il Pd, divenuto davvero contendibile si trasforma in un’investitura dall’alto che prova poi a calarsi nei vari contesti.
La cifra di una subalternità culturale di fondo rispetto a coloro che “contano”: la Cancelliera tedesca, certa stampa italiana legata alla finanza e così via. E addio “rivoluzione copernicana”; addio, cioè, al tentativo di porre al centro il confronto e la lotta politica, unica via per restituire autonomia e autorevolezza alla dimensione politica, appunto, della vita pubblica.
Insomma: in Italia continua il vezzo di appellarsi alla “rivoluzione liberale” pretendendo di realizzarla con metodi illiberali.
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