Le norme sul lavoro presentate da Matteo Renzi con il reclamizzato Jobs Act continuano a far discutere, soprattutto in ottica di occupazione giovanile e precarietà. Le modifiche previste, infatti, per i contratti a tempo determinato e l’apprendistato lasciano non pochi dubbi circa la loro capacità di rilanciare il mercato del lavoro e, con esso, la crescita economica del Paese.
Sul primo punto – i contratti a termine – il piano Renzi prevede che il datore di lavoro possa instaurare rapporti di lavoro a tempo determinato, senza causale, dalla durata massima di trentasei mesi, con la possibilità di prorogare il contratto fino ad un massimo di 8 volte. In breve, con l’entrata in vigore del decreto legge è possibile assumere per otto volte nell’arco di tre anni un lavoratore con un contratto a tempo determinato di 4/5 mesi, senza che sia più necessario indicare nel contratto le ragioni giustificative del termine.
Una frammentazione del rapporto di lavoro che, secondo Tito Boeri, noto economista e fondatore di lavoce.info, rischia di aggravare la già precaria situazione lavorativa di migliaia di giovani: “Una norma di questo tipo di fatto introduce un periodo di prova di 3 anni in cui il datore può licenziare senza pagare un’indennità, senza dare un minimo di preavviso e senza neanche motivazione”.
Se si pensa, poi, che affianco a questa ulteriore flessibilizzazione, la legge delega del governo preveda l’introduzione “in via sperimentale” di un contratto a tutele crescenti (più volte sostenuto da Renzi), emerge una contraddizione più che evidente. In proposito Boeri e Pietro Garibaldi, che da tempo hanno lanciato la proposta del contratto a tutele crescenti – composto da una prima fase di tre anni senza copertura dell’art. 18 e da una seconda fase di stabilità in cui si applica pienamente la normativa vigente – non ci sono andati giù leggeri, parlando di “norme sul lavoro sull’orlo della schizofrenia”.
“Il decreto con la nuova prova triennale – hanno scritto i due economisti – rende del tutto improponibile un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti come quello da noi formulato”. “Un periodo di prova così lungo – hanno aggiunto Boeri e Garibaldi – spiazza qualsiasi altra tipologia contrattuale nel periodo di inserimento. E dopo un periodo di prova di 3 anni, non si può immaginare di avere un contratto di inserimento come il nostro che allungherebbe la fase iniziale del contratto a 6 anni, quando l’anzianità aziendale media in Italia è attorno ai 15 anni. Inoltre il decreto aumenta il dualismo nel mercato del lavoro e innalza le barriere che separano i contratti temporanei da quelli a tempo indeterminato”.
Stesse contraddizioni per quanto riguarda la nuova modifica dell’apprendistato, come ha fatto notare, sempre dalle pagine di lavoce.info, un’altra economista, Chiara Saraceno: “Un vero e proprio ritorno indietro, con l’eliminazione sia dell’obbligo a garantire formazione, sia di quello ad assumere a tempo determinato almeno un venti per cento degli apprendisti prima di avviare nuovi contratti di questo tipo – una delle buone innovazioni introdotte da Elsa Fornero”.
“La differenza tra contratti di apprendistato e contratti a termine si annulla di nuovo, pur rimanendo a livello formale” ha concluso Saraceno, aggiungendo che “ciò che probabilmente aprirà a nuove sanzioni Ue”, riferendosi alla sentenza della Corte di Giustizia europea del 2011 che condannò l’Italia a pagare una multa di svariati milioni di euro per non aver recuperato presso le aziende gli aiuti forniti per l’assunzione di lavoratori mediante contratti di formazione che, in realtà, non prevedevano alcuna formazione, e che quindi configuravano aiuti di Stato distorsivi della concorrenza con le aziende degli altri paesi europei.
Lecito dunque che di fronte alle proposte di Renzi, che delegherebbero di fatto alle aziende il compito di formare senza alcun controllo il personale assunto come apprendista, il pensiero torni a quella condanna piuttosto indecorosa giunta da Lussemburgo. Così come è facile che, di fronte all’eliminazione dell’obbligo di assumere una quota degli apprendisti che già lavorano in azienda prima di assumerne di nuovi, qualcuno come Michele Tiraboschi, giuslavorista e direttore del centro studi Marco Biagi, si ponga alcune domande circa gli effetti precarizzanti della riforma: “Oggi le aziende fanno un uso smodato degli stage, che non comportano i costi gestionali di un’assunzione. Domani questo potrebbe accadere con l’uso indiscriminato di contratti a termine liberalizzati o dell’apprendistato così com’è concepito”.
Chissà se Renzi, a riguardo, stia già preparando delle slide di risposta...
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