2007-2013: sette anni di crisi, sette anni di vacche magre ai quali si spera segua un periodo di vacche grasse. Con questo auspicio biblico Victor Massiah ha introdotto l’incontro dello scorso 20 maggio presso la Residenza di Ripetta, a Roma, in vista del Rapporto 2013 sull’economia globale e l’Italia, realizzato dal centro Einaudi in partnership con Ubi Banca e l’Istituto Affari Internazionali (AIA).
Giunta al 17° anno, l’analisi annuale curata dall’economista Mario Deaglio costituisce ormai - come ha sottolineato Salvatore Carruba – un archivio che ben descrive “l’involuzione italiana letta in chiave globale”. Tuttavia, mai come questa volta è stato difficile trovare una chiave di lettura per quella che Deaglio chiama “Confusione globale”.
La visione d’insieme dà conto nel 2012, dopo una piccola ripresa stentata nel 2010, di un rallentamento globale e di una nuova caduta recessiva in Europa. Le misure attuate per fronteggiarla hanno alimentato “la trappola” che ha innescato il cosiddetto “moltiplicatore del disagio sociale” e della “decrescita infelice”.
La crisi ha così prodotto una riduzione delle entrate e un aumento della spesa pubblica, generando un peggioramento delle finanza pubblica, fronteggiato con misure di risanamento che a loro volta hanno alimentato il processo di avvitamento su se stessa dell’economia. In sostanza - ha spiegato Fiorella Kostoris – politiche monetarie espansive si sono combinate con politiche fiscali espansive che principalmente nel vecchio continente hanno prodotto la crisi dei debiti sovrani nei paesi più deboli.
Non v’è dubbio ormai che si tratti di una crisi strutturale che nasce da una redistribuzione del reddito globale, in un quadro di grande "mutamento della geografia economica" che non vede più l’Europa in prima fila, a vantaggio di altre aree del pianeta.
La strada maestra per uscire dal tunnel resta per ora quella dell’iniezione di liquidità monetaria da parte delle banche centrali, come sta facendo la Federel Reserve americana seguita dal Giappone, mentre la Ue è ferma al palo.
Occorre poi considerare le possibili scelte orientate su tre ipotesi di redistribuzioni possibili: dai vecchi ai poveri, dai creditori ai debitori (attraverso l’inflazione), dai consumi agli investimenti. E' proprio qui, nella scelta della ricetta giusta, che le cose si complicano e il dilemma è fra una visione di breve e una di medio/lungo termine. L’emergenza può portare spesso a prediligere la soluzione immediata, magari cercando di fornire per esempio ossigeno ai consumi quando invece, di fronte a carenze strutturali, si dovrebbe guardare agli investimenti che per loro natura hanno effetti nel tempo.
In Italia ne sappiamo qualcosa. Basti guardare solo all’ultima querelle sull’Imu che investe uno dei molti settori inefficienti, quello immobiliare, da sempre sostenuto nel nostro paese a discapito – come ha sottolineato Lorenzo Bini Smaghi - di quelli più dinamici e a più alto contenuto tecnologico, nel solco di una politica industriale sbagliata.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, se l’Italia risulta fanalino di coda dei G7 in crisi, intenta a faticare come Sisifo senza ottenere apprezzabili risultati. A rendere le cose più complicate è poi sopraggiunta la “crisi del soggetto decidente: la Politica, travolta e sommersa dall’impatto crescente dell’informazione: di quel circuito mediatico dei talk show che - come ha evidenziato il prof. Gian Enrico Rusconi - ha ridotto tutto a gossip e ha fatto saltare persino il ciclo elettorale, per cui oggi le politiche si fanno sondaggio per sondaggio”, all’impronta.
Certo, fatte le dovute differenze, il problema resta globale. Oggi, non sapendo più che pesci prendere per evitare il tracollo, si guarda con speranza al Giappone e alla sua decisione di pompare denaro nel sistema per uscire dalla sua stagnazione cronica. Molti ritengono tale scelta una illusione, mentre osservano “atterriti” – come fa Mario Deaglio – il rialzo delle Borse non giustificato dai fondamentali dell’economia reale contenente in sé il rischio fondato che un’altra bolla più letale ci possa presto esplodere fra le mani (come del resto ammonisce il crollo dell’indice Nikkey a Tokyo di oggi).
E all’Asia si guarda anche per i possibili venti di guerra. A dispetto di quanto si possa credere – ha affermato Stefano Silvestri – è dall’estremo oriente che giungono infatti i pericoli maggiori per l’innesco di un nuovo conflitto mondiale. Più probabile comunque, secondo il Presidente dello IAI, uno scenario futuro caratterizzato da una “conflittualità diffusa”: una “guerra nella pace”, che potrebbe pesare non poco sull’economia globale e sui bilanci degli stati, chiamati a intervenire per difendere i propri interessi economici e non, come del resto già in parte accade, in tanti conflitti a bassa intensità.
Una prospettiva questa che non può lasciare indifferente l’Italia, il cui dibattito interno si fossilizza spesso sulla presunta inutilità di certe costose spese militari, proprio nel momento in cui bisognerebbe tener seriamente in conto che gli Usa, avendo fatto tesoro degli errori, all’insegna dell’ “armiamoci e partite”, non sono più disposti a far le guerre per gli altri in regioni considerate per loro non più di vitale interesse. Libia e Sira docet, per esempio.
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