La riforma della giustizia, una sorta di Araba fenice, da anni discute, con pareri contrapposti, la separazione delle carriere tra giudice e PM… In molti si sono pronunciati per la separazione per un adeguamento al resto del mondo occidentale, visto che siamo l’unico Paese ad avere un pubblico ministero che, nei fatti e nell’opinione pubblica, viene considerato (impropriamente) un giudice.
Ovviamente nessuno ritiene che la riforma della Giustizia sia solo la separazione delle carriere. Ma si tratta di un primo elemento importante per avviare una non più rinviabile azione riformatrice.
Ritenuta una “proposta” di Forza Italia (era presente nel programma elettorale con cui Silvio Berlusconi vinse le elezioni del 1994), fu contrastata, ma anche molti esponenti di partiti di centrosinistra in quegli anni espressero posizioni non ostili all’ipotesi.
Scriveva Il Post in una ricostruzione di quegli anni che “… la commissione bicamerale promossa e presieduta da Massimo D’Alema, segretario del Partito dei democratici di sinistra (PDS), un organismo politico composto da deputati e senatori chiamati a elaborare riforme della costituzione condivise tra il 1997 e il 1998, discusse in maniera favorevole dell’introduzione in Costituzione della separazione delle carriere.
Uno dei promotori della separazione delle carriere fu Marco Boato, senatore dei Verdi che poi aderì all’Ulivo di Romano Prodi, secondo il quale «… il ruolo del pubblico ministero, anche in relazione all’esercizio dell’azione penale, è stato ridisegnato con l’introduzione del processo accusatorio, sicché dovrebbe (tendenzialmente) presentarsi come organo di ricerca (non di istruzione), di richiesta (non di decisione), di azione (e non di giudizio)».
La riforma costituzionale approvata negli scorsi giorni dal Consiglio dei ministri introdurrebbe una separazione delle carriere e non solo delle funzioni. Fin dall’inizio, dunque, l’aspirante magistrato dovrà decidere se fare il pm o il giudice, e sulla base di quella scelta partecipare a un concorso pubblico o all’altro, sottostando alle norme e al controllo di un CSM o dell’altro. Il tutto ovviamente a patto che la riforma entri davvero in vigore, completando il lungo e complesso iter di approvazione parlamentare e una discussione decennale.
Nel numero 104 di Quaderni Radicali n.104 (novembre-dicembre 2009), l’avvocato Fabio Viglione, che da anni interviene come collaboratore indipendente sulla rivista e su Agenzia Radicale, proponeva questa riflessione, che di seguito riportiamo, e che mette a fuoco un punto di vista da una prospettiva a nostro avviso conforme allo Stato di diritto…. (ndr)
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Magistratura e separazione delle carriere:
una battaglia senza fine
di Fabio Viglione
Sempre agitata come una riforma estrema, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri sembra appartenere ad una battaglia senza fine caratterizzata da toni incandescenti e polemiche permanenti.
Da una parte c'è chi la ritiene indispensabile per realizzare compiutamente il rito "accusatorio' e porre la terzietà del giudice su un piano di assoluta garanzia, dall'altra chi la guarda con assoluto sfavore, temendo uno snaturamento dell'autonomia della magistratura e della propria peculiare funzione.
Quest'ultimo timore finisce per accompagnare, con effetto frenante, ogni slancio riformatore che si affaccia all’orizzonte.
Ritengo che la questione vada affrontata con maggiore serenità non credendo affatto che quanti, tra i tanti operatori del diritto, auspicano la riforma siano animati dalla voglia di uno snaturamento del magistrato che sostiene l'accusa, in una compressione della propria autonomia ed indipendenza.
Al contrario, ritengo le rigide chiusure alla riforma non in linea con l'ispirazione del nostro codice (ad oltre vent'anni dall'approvazione) e con le garanzie costituzionali del "giusto processo”.
È mia opinione che i principi costituzionali posti a presidio della "indipendenza' e dell'"autonomia' del magistrato non siano affatto in pericolo anche e soprattutto in un diverso assetto all’interno del quale le carriere tra chi accusa e chi giudica viaggino distinte. E tanto, chiaramente, senza alcuna ingerenza dell'esecutivo nella sfera di autonomia del magistrato.
Proprio per tale ragione, la riforma andrebbe concepita, a mio avviso, in un quadro costituzionale di effettiva e trasparente tutela dei principi di indipendenza del magistrato il quale, chiamato ad assolvere alla propria funzione di parte pubblica, continuerebbe ad ispirare la sua azione all'interesse della corretta amministrazione della giustizia'. In altri termini, una parte processuale che, sposando i propri convincimenti fondati sui risultati della raccolta delle prove, si determini con assoluta autonomia nelle scelte iniziali e conclusive.
Non un "cieco accusatore" ma un soggetto processuale che resti "parte" anche perseguendo l'interesse del corretto funzionamento della giustizia, sia nella fase inquirente che requirente.
Non va dimenticato, sul punto, come la richiamata separazione si armonizzi pienamente con il principio costituzionale secondo il quale "ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale (art. 111).
Come operare la riforma dunque?
Fin troppo evidente come non sarebbe affatto auspicabile una diretta dipendenza della pubblica accusa dal Ministero della Giustizia, cosi come altrettanto pericolosa sarebbe una investitura popolare della carica.
In un piano di riforma costituzionale andrebbe garantito, per rea lizzare la riforma, un autogoverno del magistrato della pubblica accusa con le stesse garanzie di indipendenza ed autonomia dell’attuale Consiglio Superiore.
Tale piano di autonomia da ogni forma di controllo, rappresenterebbe il punto di partenza sul quale costruire la struttura della riforma.
Dunque, tra chi sostiene l'accusa e chi giudica, in un piano di assoluta autonomia ed indipendenza, si realizzerebbe, ab origine, una netta distinzione proprio in ragione della assoluta differenza tra ruoli e funzioni. Pertanto, non riesco a comprendere per quale ragione la separazione delle carriere debba necessariamente tradursi, così come sostenuto da quanti avversano la riforma, in un'automatica dipendenza dei pubblici ministeri nell'esecutivo ed in uno stravolgimento del sistema con uno squilibrio tra poteri dello Stato.
Del pari, mi è impossibile immaginare che quanti, da decenni, sostengano la necessità di una riforma relativa alla separazione delle carriere, possano desiderare una drastica riduzione di autonomia ed indipendenza della pubblica accusa.
Non sarebbe il rischio di una "dipendenza" della pubblica accusa dall'esecutivo un rischio accettabile nel quadro di una riforma concepita per dare compiuta attuazione al sistema accusatorio che ispirò le scelte di fondo del legislatore del 1988 (codice di procedura penale).
Peraltro, in un processo di parti poste "in condizioni di parità" all'interno del quale la terzietà del giudice rappresenta assoluta garanzia per il sistema, una riforma di tal fatta appare assolutamente in linea anche con le scelte adottate da molti altri Paesi europei.
Non certo, dunque, come una anomalia foriera di un pericolo per la salvaguardia delle richiamate garanzie di indipendenza ed autonomia.
Privo di effettiva concretezza, a mio avviso, deve ritenersi anche il pericolo, spesso ipotizzato, di un automatico eccesso di partigianeria del P.M. quale conseguenza delle separazione.
Non ravviso dunque, non solo il rischio di perdita di autonomia, ma neanche una maggiore carica faziosa nelle determinazioni del magistrato che sceglie di essere parte del processo.
Al contrario, "le condizioni di parità" tra accusa e difesa previste dall'art. 111 della Costituzione troverebbero più stabile attuazione in una equidistanza anche rispetto ad un ordinamento completamente autonomo.
Purtroppo, nel nostro dibattito sulle riforme in tema di giustizia, per le ragioni più disparate, questa annosa questione sembra non sapersi liberare da un sospetto: la separazione delle carriere come legge contro’.
Tale difettoso paradigma non rispecchia l'essenza della riforma anche se, talvolta, alcune sortite della "politica', nell'approccio alle questioni da analizzare, sembrano autorizzare semplicistiche definizioni. E tanto, anche in ragione delle modalità con le quali alcune rigide contrapposizioni, su un tema tanto delicato, finiscono per occupare il campo.
Ed allora, inevitabilmente, se il dibattito continua a registrare contrapposizioni tanto acute, spesso prive di ampio e generale respiro, non sembra che il terreno sia fertile per la realizzazione di una riforma condivisa.
(da Quaderni Radicali n.104 / novembre-dicembre 2009)
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