di Maurizio Musu
Giornalista professionista, Eleonora Camilli lavora dal 2007 presso la redazione romana di Redattore Sociale specializzata sui temi del welfare, della marginalità e dell’esclusione. Si occupa in particolare di diritti, migrazioni e diaspore contemporanee. In questa intervista ci racconta il viaggio fatto fra Romania e Polonia qualche settimana fa.
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D.: Sei stata nei giorni scorsi in viaggio fra Romania e Polonia. Quale realtà hai trovato nelle terre di confine con l'Ucraina? da quanto hai avuto modo di vedere e sentire oltre la paura della guerra cosa ti ha colpito della gente?
R.: Sono stata in Romania, principalmente nei luoghi di confine, a Siret e in diversi centri di accoglienza, alcuni ben organizzati, altri improvvisati e informali allestiti in poco tempo per i profughi.
In Romania ho trovato una straordinaria mobilitazione dal basso delle persone comuni oltre ai più organizzati volontari. Fra loro per esempio c’è Manuel, un giovane operaio di fabbrica, che tutte le sere, dopo il lavoro, andava a Siret, per poter accompagnare le persone nel piccolo palazzetto dello sport che un sindaco aveva allestito per i profughi a Dumbraevi di Suceava.
Sono stata anche in una scuola che, allo stesso modo era stata allestita a centro di accoglienza. Anche qui c’erano persone che per la prima volta si occupavano dei profughi, come una ragazza di poco più di venti anni. Mi ha che mi detto di aver sentito l'esigenza di mobilitarsi, di fare qualcosa, dopo aver visto in tv quello che stava accadendo a pochi chilometri da casa sua gli sembrava assurdo.
Ho visitato poi un albergo a quattro stelle dove lo stesso proprietario ha messo a disposizione una parte della struttura per le persone in fuga dall’Ucraina. Sostanzialmente sono tutti principalmente dei luoghi di transito, perché le persone che arrivano nei paesi frontalieri restano pochi giorni e poi cercano di raggiungere parenti e amici in altri paesi europei; quelli che invece decidono di restare sono quelli intenzionati a tornare indietro il prima possibile, o almeno nelle zone vicino alla Romania, dove il conflitto non è così acceso.
In Polonia, invecee, sono stato a Varsavia in uno dei centri più grandi, l'ex Expo della città, dove c'erano migliaia di persone, circa di 7000. L’organizzazione qui è di tipo governativa, con militari a presidiare il centro per questioni di sicurezza e controllo.
D.: Cosa significa per un romeno ed un polacco la guerra in Ucraina? Essere europei in terre di confine cosa significa?
R.: L’aspetto più evidente è che profughi e abitanti delle zone di confine siano accomunati dalla paura di essere vittime o di poterlo diventare di lì a poco se il conflitto si dovesse estendere oltre. In Romania il fenomeno migratorio è pressoché nuovo e si è creata una grande solidarietà e mobilitazione generale, come dicevo prima. In Polonia, negli ultimi tempi, è più evidente quello che molti chiamano un “doppio standard” di accoglienza: mentre si accolgono gli ucraini si continuano a respingere profughi provenienti da altri contesti. Un esempio su tutti, quello che accade al confine con la Bielorussia.
In generale le persone sostengono l’Ucraina, anche politicamente e dare alloggi e mettere a disposizioni spazi, strutture, è diventato un dovere sociale
D.: Donne bambini anziani fra paura e terrore, ma cosa chiedono realmente gli ucraini? Cosa e com’è raccontato dai nostri mass media il conflitto secondo te? Ci racconti in sintesi come vivono i profughi? Cosa chiedono? Come sono accolti dalla popolazione? Quanti ucraini si trovano ad oggi in Romania e Polonia? Quanti se ne prevedono nel tempo?
R.: Ho parlato in prevalenza con le donne che hanno lasciato i compagni a combattere, quello che chiedono prevalentemente è il cessate il fuoco. Vorrebbero solo poter tornare a casa. E alcuni lo stanno facendo: c’è anche una migrazione di ritorno.
Tutto questo emerge poco dal racconto mainstream: le opinioni si basano soprattutto sulla polemica politica, ci si sofferma poco sulla vita delle persone. Spesso è un’informazione spettacolo mentre nel caso di una guerra come questa avremmo bisogno più di approfondimenti. Si racconta molto poco le dinamiche geopolitiche. L’aspetto importante relativo all'accoglienza in Europa è che per la prima volta si è deciso di attivare la Direttiva 55 del 2001 (formalizzata dopo la guerra del Kosovo ma rimasta in un cassetto per vent'anni e che permette, nel caso di un afflusso massiccio di persone di poter attivare immediatamente protezione e accoglienza per le. vittime di conflitto. Questo non è stato fatto con nessuna delle crisi umanitarie degli ultimi vent'anni che hanno investito in parte anche l'Europa; penso da ultimo a quest'estate e a quanto accaduto in Afghanistan).
Sarebbe opportuna una lunga riflessione socio-politica-culturale.
D.: Da giornalista che si occupa da sempre di temi relativi alle "zone di confine" che cosa ti porti dietro da questo viaggio? Da donna?
Negli ultimi anni sono stata in diverse zone di confine, dalla Grecia a Calais, e più volte sulla rotta balcanica. Non ho mai visto nei miei viaggi una mobilitazione così massiccia, gente comune, singole associazioni, governi, ciascuno a modo proprio sta cercando di contribuire nell’aiuto dei profughi; credo che questo rappresenti già un precedente importante che potenzialmente si potrà replicare anche in altre crisi umanitarie.
Certo non nascondo dubbi e perplessità in merito, le questioni politiche sono sempre suscettibili di varianti e opzioni ma ad oggi, la mobilitazione generale si sta dimostrando efficace ed efficiente – nonostante i problemi nelle singoli gestioni -. Il sistema sta reggendo.
Al momento si parla di oltre 6 milioni di profughi dall’ucraina accolti nei vari paesi in Europa. Considerazione a latere: “Non siamo stati invasi. Non è collassato alcun sistema. Se si mette in piedi un modello che prevede una liberalizzazione dei visti di ingresso regolari con un'accoglienza dal basso, si può riuscire nell’accoglienza senza troppi disagi e problemi. In merito alla questione del mio essere donna, riporto quanto visto a A Siret, nel nord-est della Romania al confine con l’Ucraina.
Le donne che varcavano la frontiera portano con sè un carico di rabbia mista al dolore e tanta paura di un futuro molto incerto; attraversavano la frontiera con i figli piccolissimi e, nonostante i sentimenti contrastanti, si mostrano sorridenti ai loro figli.
Questo senso materno è qualcosa di straordinario. L’umanità di quei gesti, di quel calore, di quei sorrisi li accompagneranno per lungo tempo oltre il rumore delle bombe, dei morti. Penso a Inna: appena ci siamo conosciute mi ha detto “la mia città non esiste più, cancellata anche dalla mappa. I russi sono entrati ed hanno fatto tabula rasa”; nei loro occhi, nelle loro parole sentivi il peso di una fuga ma anche il coraggio di non arrendersi nonostante tutto, “Sono stanchissima, distrutta, stremata, non so dove andare, non so a chi devo e posso chiedere aiuto”.
Indubbiamente l'essere donna mi ha aiutata ad entrare in relazione. Le chiacchiere/interviste iniziavano banalmente con un come stai, ma dopo poche parole, ciascuna di queste donne si lanciava in racconti intimi, carichi di una speranza che poco aveva a che fare con rabbia e rancore.
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