La vicenda della diciottenne di origine pakistana Saman Abbas, il suo tragico destino, la sua orribile fine (il suo corpo ancora non è stato trovato), il raccapricciante coinvolgimento della intera famiglia nell’inquetante assassino, ci descrivono uno scenario che ci mostra un Pakistan, lontano dalla nostra percezione e dalla nostra conoscenza, che si nutre della non conoscenza di quello che accade realmente a cui il circuito dei media del nostro paese ci sottopone.
Agenzia Radicale cerca di colmare questo colpevole vuoto raccontando lo stato delle cose, di quel paese e di altri, di popoli e di identità personali, che non vengono nemmeno lontanamente percepite dalla maggior parte degli italiani sottoposti ad una stampa, ma soprattutto ad una televisione, pubblica e privata, che fa dell’occultamento delle notizie il proprio modello privo di deontologia.
Così grazie a Tufail Ahmad, Senior Fellow presso MEMRI, abbiamo potuto, con i nostri ridotti strumenti, far sapere che sono tante le donne che in Pakistan lottano per i loro diritti, portano avanti una carta delle richieste volte a migliorare la vita delle donne. Tuttavia, i gruppi islamisti e le principali organizzazioni religiose del Pakistan, hanno pubblicato rapporti ed editoriali e rilasciato dichiarazioni contro le attiviste per i diritti delle donne e hanno tenuto manifestazioni parallele per contrastare la Giornata internazionale della donna.
E ancora grazie a Anna Mahjar-Barducci, si è potuto ricostruire, citando le parole dell’intellettuale Salman Masalha che l'individuo non ha un ruolo nel mondo musulmano, dato che i valori della mentalità nomadica tribale condizionano ancora profondamente la società. Infatti, secondo Masalha, per quanto concerne il ruolo dell'individuo, l'Islam non ha introdotto valori nuovi, che potessero sostituire quelli nomadici. "[Pertanto,] tutto ciò che riguarda l'onore individuale è inesistente. Per questo motivo, l'uomo arabo cerca al di fuori di se stesso la propria identità repressa, dirigendosi verso l'anello più debole del suo contesto familiare, vale a dire la donna - sua moglie, sua sorella, sua figlia, ecc.”…
Quello che segue, in quest’opera di documentazione e di illuminazione delle voci di chi si batte per i diritti, in primo luogo dele donne, è un capitolo del libro, sempre di Anna Mahjar-Barducci, Pakistan Express, dal quale traspare che in quel paese, come in molti altri, c’è chi combatte per le proprie libertà individuali, sia pure in un contesto di disagi e di riti arcaici, che condizionano le vita e le speranze del proprio esistere. E questo anche in assenza di attenzione alle loro domande di libertà.
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Pakistan Express* (capitolo 3)
di Anna Mahjar-Barducci
L’unica ragazza che ho conosciuto, durante tutto il periodo in cui ho abitato in questa cittadina dell’allora NWFP, si chiamava Sameera. Sono più di dieci anni che non ho più sue notizie, ma me la ricordo ancora bene. Era di una bellezza pulita e al contempo sensuale. Era alta, longilinea, con lunghi e morbidi capelli neri, che curava con l’olio di amla. Aveva un sorriso mite e occhi vivaci, che scrutavano attenti ogni nuova persona che incontrava, forse anche perché non le capitava spesso di fare amicizia e ricevere visite.
Studiava come dattilografa e allora viveva ancora con la sua famiglia. Aveva due fratelli minori, ma per suo padre, che lavorava per il mio come segretario, era lei la favorita. Nonostante non avessero molti soldi, parte dello stipendio era destinata alla sua istruzione, nella speranza di offrirle un futuro migliore. In realtà, in Pakistan, le possibilità di affermazione professionale per una donna istruita delle classi meno abbienti non sono molte. Al contrario una donna cheha alle spalle una famiglia potente può riuscire a diventare persino primo ministro.
Sameera, però, non era una ragazza ambiziosa. Era timida e la sua natura docile la portava ad accettare naturalmente la condizione della donna nel suo paese. Trascorreva le sue giornate tra la scuola, dove erano tutte ragazze, e la penombra della sua stanza.
La prima volta che la incontrai, fu nel salotto di casa sua, che si raggiungeva attraversando un ballatoio esterno, dove sua madre stava distesa su un letto coperto da stoffe variopinte. Sameera mi disse di accomodarmi sul tappeto. Lei si mise accanto a me, togliendosi il leggero velo rosa che le copriva i capelli.
Era felice di avere un’ospite e sembrava ansiosa di farmi delle domande. Dopo avermi chiesto come si pronunciava il mio nome, però, mi domandò subito quale fosse la mia religione. Mi sembrò una domanda strana da fare. Solitamente, in Occidente, questo non è fra i primi quesiti che si pongono a una persona appena conosciuta. Rimasi quindi un po’ stupita, ma mi resi subito conto che quello era il modo normale per iniziare una conversazione.
Un occidentale non ha altra scelta che dire di appartenere a una religione monoteista, dichiarandosi quindi o cristiano o musulmano, dato che gli ebrei non sono così ben accetti. Assolutamente sconsigliabile, invece, professarsi laico, termine astratto che soltanto l’élite intellettuale conosce, o politeista come gli indiani, dato che non ci sarebbe peccato maggiore.
Sameera guardò poi il mio vestito. Quel giorno non avevo indossato il solito shalwar kameez, ma una gonna nera lunga e larga e un camicione che arrivava sotto i fianchi. Mi chiese se il mio abbigliamento avesse un nome, come lo shalwar kameez. Non sapevo che cosa risponderle, e le dissi «gonna con camicia». Ridendo titubante e arrossendo leggermente, mi confessò sottovoce che le sarebbe piaciuto andare in Francia. Mi fece sorridere il suo imbarazzo e, soprattutto, l’ingenuità con la quale mi chiese conferma che la Francia si trovasse in Europa.
Erano appena le 10 del mattino ed era una giornata calda d’estate. Sameera mi propose di fare colazione e accettai ben volentieri. Andò verso la cucina a piedi scalzi e, quindici minuti dopo, tornò con delle fette di cocomero e una caraffa su un vassoio argentato, che appoggiò con garbo su un tavolino basso di legno intagliato. Prese due tazze dall’armadietto del salotto e mi versò del tè, che in urdu si dice chai, di colore marrone e intensamente profumato al cardamomo. Era un tè al latte dalla fragranza decisa e zuccherina. Appena lo assaggiai, le chiesi entusiasta la ricetta. Mi rispose che la settimana successiva sarebbe venuta a trovarmi e che mi avrebbe mostrato come prepararlo.
Il sabato successivo, venne infatti a casa mia. Rimase quasi tutta la serata. Mi fece vedere come si preparava il tè, che andava bollito e ribollito con il latte e che diffuse per tutta la casa una fragranza speziata. Le regalai poi degli smalti rossi e rosa per le unghie e dei braccialetti di plastica, che infilò subito nelle sue braccia magre.
Ci saremmo dovute rivedere ancora, ma poche settimane dopo appresi che si sarebbe sposata con un suo cugino e che si sarebbe trasferita a Peshawar. A quanto pare, il cugino aveva un buon lavoro, avrebbe potuto garantirle una vita tranquilla e anche farle continuare gli studi. Lei non lo aveva mai visto. Era stato il padre a organizzare il matrimonio. Lei aveva accettato senza protestare. In Pakistan, infatti, esiste un proverbio molto conosciuto: «Prima il matrimonio e poi l’amore».
Non la rividi più e non so se i suoi occhi scuri siano ancora così vivaci o se si siano spenti. Ma di lei mi è rimasto un foglio sbiadito con la ricetta di quel delizioso tè al latte, gradevole e dolce come il ricordo che ho serbato di lei…
(*) Pakistan Express (Edizioni Lindau), di Anna Mahjar-Barducci. Prefazione di Oliviero Toscani, 2011, finalista del Premio Bancarella.
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