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20/11/24 ore

Il punto sulla emergenza Giustizia. Conversazione con l’avv. Fabio Viglione



Mercoledì 27 gennaio 2021, il ministro Bonafede doveva presentare la sua Relazione sullo stato della giustizia in Italia. L’occasione era a tal punto a rischio per la tenuta della maggioranza di sostegno al governo Conte, che probabilmente è stata una delle principali cause per la scelta di salire al Colle da parte del presidente del Consiglio per dare le sue dimissioni. Resta comunque importante fare il punto sull’emergenza giustizia, che riguarda vari aspetti del nostro vivere civile. Agenzia Radicale lo fa con una conversazione con l’avv. Fabio Viglione

 

 

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L’Italia ha più di un milione e mezzo di procedimenti penali pendenti e quasi il doppio di procedimenti civili. In pratica quasi sei milioni di casi, uno ogni dieci abitanti compresi i bambini. Il nostro è un Paese stravolto dalle contese giuridiche e dall’interventismo giudiziario. Non basta allora richiedere solo tempi certi, tanto più se come fa il ministro ci si affida a generiche disposizioni che si risolvono in vane grida senza effetto. Come ridurre il contenzioso? È indispensabile intervenire tanto sul fronte della depenalizzazione, quanto su quello delle assunzioni di personale. 

 

Da tempo, in materia di Giustizia, “il piatto piange”. Ed anche gli interventi recenti stanno lasciando molto a desiderare. I numeri non consentono mezze misure se davvero si vuole affrontare in modo sistemico l’emergenza che ormai si è cronicizzata. Servono poi idee chiare e investimenti. Il numero dei procedimenti da istruire e scrutinare non è in equilibrio con il numero dei magistrati e con le risorse necessarie per far funzionare senza intoppi un accertamento giurisdizionale. In una situazione già molto penalizzante per il servizio Giustizia e per i cittadini che la incontrano nel loro percorso di vita. Dai testimoni, alle vittime, dagli indagati agli imputati. Dagli assolti ai condannati. Si, anche ai condannati, che hanno diritto ad un processo che si svolga in tempi ragionevoli e, in caso di condanna, sono chiamati ad espiare la pena a distanza siderale dalla commissione del reato. E come se si facesse scontare una pena ad una persona diversa rispetto a quella che ha commesso il reato se i tempi si dilatano a dismisura.

 

Poi c’è da dire che in questa legislatura si è introdotto un un “correttivo” ancora peggiore del male da curare. Se il male da curare era la “lungaggine” del processo, la medicina adottata è stata la creazione di un processo senza fine.  Si è sostanzialmente abolita la prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado. Così, per qualunque tipologia di reato, dopo la sentenza di primo grado, i successivi due gradi – appello e cassazione – ben potrebbero protrarsi all’infinito. Questa scelta è stata osteggiata dall’avvocatura, da molti magistrati e dalla totalità dell’Accademia. Ma, come è noto, non c’è stato niente da fare. Si è preferito ostinarsi combattendo una “lotta alla prescrizione” senza quartiere senza pensare ai necessari correttivi per evitarla o, comunque, per limitarla al minimo. La sostanziale abolizione della prescrizione è un correttivo davvero iniquo. 

 

Come se, a causa di una disfunzione della sanità si finisse per far pagare il fio della disorganizzazione al paziente. L’imputato è il paziente è il sistema statuale è il sistema che deve garantire la cura. Nessuno sforzo per procedere ad una efficace e consistente depenalizzazione, nessuna implementazione di organici. Sempre inadeguati a fronteggiare la gran mole di lavoro. La giustizia civile, poi, quanto ai tempi complessivi lascia ancora più a desiderare. In questo senso è innegabile il nostro scarso appeal nei confronti di investitori esteri che si fonda sulla incapacità di dare risposte al contezioso in termini rapidi. In termini compatibili con il ritmo di una economia che non aspetta. Spero in un cambio di rotta ma non mi sembra ci siano le condizioni, la cultura giuridica e la sensibilità politica. Al netto, poi, della crisi economica che rende sempre più difficile investire risorse economiche adeguate.   

 

Centrale è anche la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale, ridottasi nei fatti a un totale arbitrio dei magistrati inquirenti. Non è tempo di richiedere una vera politica giudiziaria, da realizzare in un lavoro congiunto tra le istituzioni? Al Parlamento dovrebbe spettare l’indicazione delle priorità dei reati da perseguire, secondo una pianificazione dell’esercizio giurisdizionale che non può essere da meno della programmazione di altri settori essenziali (energia, istruzione, salute).

 

È  un tema complesso. Io comprendo le ragioni di chi ritiene auspicabile che questo principio venga rimeditato.  Sul punto, tuttavia, continuo ad essere dell’idea che l’obbligatorietà dell’azione penale sia una garanzia del sistema e più in linea con i principi costituzionali anche in ordine al rapporto tra i cittadini e la pretesa punitiva dello Stato. Sento più saldo il principio di uguaglianza con riferimento all’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale. Ovviamente mi riferisco alle notizie di reato che abbiano un legittimo fondamento, non certo a teoremi avventati.  Io credo che la criticità più rilevante si annidi sul terreno che abbiamo richiamato prima. Per far funzionare un sistema di questo genere, che garantisca un principio fondativo della nostra giurisdizione, non può esserci il già richiamato squilibrio di numeri perché altrimenti si arriva, inevitabilmente, ad una selezione delle notizie di reato da coltivare.

 

Si finisce cioè per operare scelte più o meno condivise di criteri prioritari che non hanno copertura legislativa. Con il rischio di una sorta di feudalesimo ancorato alle diverse realtà territoriali.  Il problema è di ordine pratico non solo una disquisizione di principio. Se un Pubblico Ministero, anche lavorando alacremente, notte e giorno, non può verificare in modo completo più di dieci fascicoli dei trenta che - ad esempio - gli vengono trasmessi, il principio dell’obbligatorietà diventa un mero simulacro. Ho usato numeri prosaicamente esemplificativi dello squilibrio e non ho statistiche alla mano ma credo che sia questo il cuore del problema. D’altronde, sempre a proposito di prescrizione, la maggior parte dei procedimenti, oltre la metà, si prescrivono proprio nella fase delle indagini. I dati forniti dal Ministero della Giustizia confermano che è proprio nella fase delle indagini che alligna il maggior numero di procedimenti che vengono definiti con la prescrizione. Senza accertamenti nel merito in ordine alla fondatezza della notizia di reato.

 

Dunque, l’obbligatorietà dell’azione penale è un principio che a mio avviso va salvaguardato ma non solo a parole. Con queste asimmetrie di numeri e con queste sproporzioni  fra risorse e carichi pendenti da gestire, quel principio sbiadisce totalmente. Ma resto ancora dell’idea che non vada sacrificato il principio ma, al contrario, vadano apportati i correttivi per renderlo effettivo. Proprio in questo senso, senza investimenti adeguati che consentano l’implementazione delle risorse, un maggiore numero di magistrati e personale di cancelleria e senza una adeguata selezione del “penalmente rilevante” il principio è destinato ad essere tradito.      

 

Nel merito dei reati occorre procedere a un ripensamento dei sistemi che contraddistinguono i criteri che presiedono alle pene. Non è pensabile che tali criteri abbiano come riferimento soltanto la misura quantitativa delle sanzioni. Lasciare a piede libero chi commette reati solo in base all’esiguità della pena che dovrebbe essergli comminata non ha senso. Ciò che conta è la tipologia del reato e quelli contro la persona o la proprietà non dovrebbero essere trascurati. Viceversa molti reati di natura economica andrebbero sanzionati non tanto con pene detentive, quanto con rivalse finanziarie.

 

Credo che oltre alle depenalizzazioni, sia necessario riformare il sistema sanzionatorio. Un sistema  che si è sviluppato nel tempo ma che non può non essere ripensato in chiave più moderna. Una chiave che consenta di cogliere di più e meglio le sensibilità di una comunità, il disvalore delle condotte, l’effettività di una sanzione. Senza dimenticare un dato centrale: le pene devono tendere sempre ad una risocializzazione riabilitante, altrimenti falliscono nella finalità più profonda. Costituzione alla mano, la riflessione si impone anche per tutta una serie di riferimenti sanzionatori che annoverano la reclusione come unica modalità di espiazione. In questo senso, una certa politica fatta di slogan in grado di colpire e far rumore ha finito per scambiare la certezza della pena con un maggior ricorso al carcere. Certezza della pena non significa più carcere.

 

Credo si debba completamente rovesciare il ragionamento. La pena detentiva non è più il modello unico ma una modalità di esecuzione che per la maggior parte dei reati ci allontana dalla funzione risocializzante. Non solo, talvolta, soprattutto quando accompagnata dalla sospensione condizionale neanche particolarmente in grado di lasciare il segno rispetto a forme di sanzione economiche che magari potrebbero avere un effetto dissuasivo maggiore. Senza dimenticare poi che tanto ancora si deve fare per migliorare le condizioni carcerarie e mai possiamo abituarci a forme di sofferenza e di degrado che non hanno niente a che vedere non solo con la funzione riabilitativa ma con la stessa privazione della libertà. La perdita della libertà non può mai trasformarsi nella perdita della dignità. La centralità dell’uomo e della sua dignità va preservata sempre ed è compito dello Stato garantirla anche a chi ha sbagliato. Lo Stato non può praticare vendetta ma deve contrappone il rispetto della legalità anche a chi ha vissuto di illegalità.

 

È questa la grande sfida che uno Stato di Diritto non deve mai abbandonare. Non è vuoto perdonismo, è un atteggiamento culturale che stento a ritrovare nei dibattiti politici sul tema dell’esecuzione delle pene. Forme più diffuse di pene alternative alla detenzione, poi, dovrebbero essere viste con maggiore favore senza apparire come comode vie di fuga dal carcere. Se penso che in questa legislatura sono state approvate riforme che rendono inaccessibili pene diverse dal carcere per una serie di reati contro la Pubblica Amministrazione… Con la cosiddetta “spazzacorrotti” anche un modesto peculato di poche centinaia di euro viene punito esclusivamente con il carcere. Diversamente, per esempio, da una serie di reati contro la persona che se non superano i quattro anni possono condurre il condannato a scontare la pena fuori dal carcere.

 

Una politica criminale certamente discutibile.  Molto ha certamente inciso la criminalizzazione di una sola tipologia di reati sulla quale alcune forze politiche hanno costruito larghi consensi di piazza. Tuttavia se su queste riflessioni e su questi temi tanto delicati si materializza la necessità di avere immediati consensi di piazza diventa complicato fare un bilancio degli interessi in gioco in uno Stato di Diritto. Il dibattito diventa più fazioso, si usano slogan pubblicitari e stereotipi sbagliati sui quali ci si divide. Il “populismo” non consente di preparare il terreno a riforme meditate, spesso sofferte, che non si riescono a tradurre in uno spot accattivante e necessitano di un tasso di maturità del dibattito politico. A tacere del fatto, poi, che non si guardi mai alla prevenzione ma solo alla repressione con continui aumenti quantitativi del regime sanzionatorio.                         

 

È in corso una sottrazione di spazi alla difesa che è attuata in modo surrettizio, attraverso scadenzari o artifici burocratici. Per fare un esempio la vicenda delle notifiche tardive, l’assenza di servizi informatici. Così come avviene nei regimi totalitari, si compiono discriminazioni, attraverso labirinti senza uscita di natura normativa. Ugualmente accade con gli stratagemmi di alcune procure, tesi ad avere mano libera e garantire un’area di vero arbitrio.

 

L’effettività del diritto di difesa è un baluardo delle garanzie che possono essere riconosciute al cittadino in una democrazia. La difesa “è un diritto inviolabile” del cittadino si legge nella Costituzione.  Ma affinché non diventi una formula vuota deve tradursi in un rapporto equilibrato. Questo equilibrio spesso manca. Manca già nella sproporzione di mezzi a disposizione, nella rappresentazione mediatica delle inchieste, vissute sempre a senso unico con sostanziali sentenze di condanna anticipate. Ed è difficile garantire l’equilibrio nei cosiddetti maxiprocessi nei quali un imputato e la sua difesa possono dover fare i conti con montagne di atti, molte decine di posizioni, spesso eterogenee, ed una oggettiva difficoltà nel perimetrare la propria posizione. Ma anche tanto si può fare per migliorare il servizio sotto il profilo dell’accesso informatico ai dati ed ai servizi. A tacere, poi, dei costi che gravano sull’imputato solo per poter fare le seplici copie degli atti di causa nei processi di notevoli dimensioni. 

 

L’emergenza per la pandemia  si è abbattuta nel nostro sistema nel quale il piano di informatizzazione è ancora lontano da una ottimizzazione delle risorse. La gran parte degli adempimenti di cui il difensore deve farsi carico sono ancorati ad una materialità di deposito. Depositare una memoria, una opposizione, una impugnazione. Impegnano quotidianamente migliaia di professionisti da una parte e numerosissimo personale amministrativo dall’altra che finiscono per spendere quantità significative di tempo ed energie. Perdere ore per fare un deposito e per consegnare richieste, spesso dopo file interminabili, è un tempo che non può essere speso nel 2021. Il difensore (e quindi l’utente del servizio giustizia in generale…) oltre che ricettore passivo di pec potrebbe servirsi del sistema informatico per procedere negli adempimenti di tipo materiale.

 

Queste sono attività nelle quali l’informatica oltre che aiutare può sostituire la fisicità e la materialità dell’adempimento. In un recentissimo decreto del Ministero della Giustizia è stato previsto un deposito su piattaforme telematiche di atti, documenti e istanze nella vigenza dell'emergenza epidemiologica.  Testeremo a breve il funzionamento. Credo tuttavia che questa impostazione emergenziale vada poi più organicamente estesa, con i dovuti correttivi, ad una serie di attività materiali di deposito che possano snellire e modernizzare gli adempimenti materiali. Il cittadino deve essere posto nelle condizioni di difendersi agilmente per poter esercitare pienamente i propri diritti.   

 

Il discredito della magistratura dopo la vicenda Palamara (tutta in ogni caso ancora da chiarire circa responsabilità complicità) è inquietantemente occultato, ma permane. Quella parte delle toghe schierate, politicamente influenzate o succubi di pressioni corporativi, costituiscono una minaccia intollerabile per la democrazia e per la stessa, necessaria funzione dei giudici. Senza una magistratura davvero indipendente, a cui il cittadino indifeso assegna la speranza della certezza del diritto, non c’è democrazia.

 

Bisogna guardare al processo con fiducia, nonostante tutto. La la fiducia con la quale il mugnaio di Bertold Brecht pensava di rivolgersi al giudice di Berlino per essere tutelato dagli abusi e dalle tracotanze del potente.  La tenuta del sistema democratico passa anche da questi snodi e perdere la fiducia da parte dei cittadini significa far piombare il sistema in un buio pesto dal quale non si vede via d’uscita.  Bisogna credere nel giudice terzo e imparziale cercando il più possibile di rimuovere ogni situazione che possa frapporsi alla sua terzietà anche solo offuscandola. Il Giudice deve essere terzo e deve apparire tale. In questo senso la separazione delle carriere può giocare un ruolo primario, a mio parere, sul piano sistemico.

 

Con il rito accusatorio è fisiologico pensare ad una netta distinzione di funzioni e di carriere tra chi accusa ed è parte e chi giudica che è terzo è parte non è. Questo prescinde dalla serietà e dall’onestà intellettuale dei singoli magistrati che sono chiamati a svolgere un lavoro davvero difficile nel quale devono sempre mantenere grande equilibrio perché la loro funzione è di primaria importanza. Penso sempre alla “solitudine” del giudice nella camera di consiglio quando è chiamato a decidere delle sorti di una persona. Io sono quotidianamente al di là di quella porta a fianco di una persona che soffre, spera e spesso prega prima della lettura della sentenza. A volte è importante, con la stessa cultura della giurisdizione che deve appartenerci, qualunque sia il nostro ruolo all’interno del processo, saperci immedesimare e proiettare nell’altro da noi. 

 

Quanto alla cosiddetta “vicenda Palamara”, credo vada affrontata con serietà ed in modo profondo evitando demonizzazioni soggettive.  Il dr. Palamara è assistito dalla presunzione di non colpevolezza, non ha subito alcuna condanna in sede penale e non ritengo giusto subisca una condanna mediatica senza appello. Né che venga chiamato a farsi carico di ogni disfunzione come una sorta di Atlante condannato a portare sulle proprie spalle un fardello insopportabile. Nei suoi confronti va garantita, anche nei dibattiti, la presunzione di innocenza che non può essere vissuta a singhiozzo o in modo timido. È un atteggiamento culturale rispetto al quale non è ammissibile, Costituzione alla mano, operare deroghe. Piuttosto, il tema del cosiddetto “correntismo” e delle carriere influenzate dalle appartenenze alle correnti è un tema che merita di essere esaminato a fondo. Ben al di là delle eventuali responsabilità dei singoli. Come guardare alle correnti ? Sono luoghi in cui deve prevalere e va promosso solo un “dibattito ideale”?

 

È possibile praticare una “ortopedia”che renda le questioni ideali e elaborazioni di cultura professionale sempre lontane dalla gestione del potere vera o presunta? Forse anche sotto questo aspetto la vecchia ma sempre nuova questione sulla separazione delle carriere resta aperta. Si tratta di problematiche che vanno affrontate approfonditamente perché la terzietà del giudice, la trasparenza nei meccanismi di carriera, delle attribuzioni di incarichi direttivi negli uffici giudiziari, giocano un ruolo fondamentale nella nostra democrazia. Ma quello he spesso manca è un dibattito che prescinda da difese o accuse di singoli, che abbandoni toni esasperati e provocatori e sappia fare sintesi tendendo ad una catarsi in grado di progettare sistemi più virtuosi ed efficienti guadando alla Giustizia come un “servizio essenziale”. Un servizio cui i cittadini hanno diritto e di cui avvertono un gran bisogno. Un bisogno che si nutre della fiducia nel sistema che tuteli i diritti. E torniamo al mugnaio di Brecht…         

 

 


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