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18/11/24 ore

Il delitto di Perugia tra circo mediatico e verità processuali, intervista al giudice Hellmann



di Gianni Carbotti Camillo Maffia

 

Di recente si sono di nuovo accesi i riflettori dell’attenzione mediatica sul noto caso del “delitto di Perugia”, quello sull’omicidio di Meredith Kercher, quando Amanda Knox, assolta insieme al coimputato Raffaele Sollecito dall’accusa di aver assassinato la studentessa inglese, è tornata in Italia per partecipare come relatrice al Festival della Giustizia Penale che si svolto a Modena lo scorso giugno. Ancora una volta l’attenzione della stampa, più che concentrarsi sui contenuti proposti durante la kermesse o sul senso della partecipazione e dell’intervento di Amanda, si è risolta nella consueta spettacolarizzazione culminata nell’ormai prevedibile gazzarra sui social. È di questi giorni anche la notizia che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha confermato la condanna al nostro paese per aver violato i diritti alla difesa della Knox durante le fasi iniziali dell’indagine a suo carico. La vicenda quindi non cessa di attirare le pulsioni più sensazionalistiche dei media e quelle più morbose del pubblico, spesso a discapito di una narrazione trasparente dei fatti. Ci siamo rivolti per un approfondimento di questi temi a Claudio Pratillo Hellmann, il magistrato, ora in pensione, che nel 2011 formulò in appello l’assoluzione per i due imputati. 



Dott. Hellmann, secondo la sua esperienza quanto dista la realtà processuale dalla percezione dell’opinione pubblica influenzata dalla rappresentazione mediatica dei casi?



Direi che dista molto perché come tutti sanno benissimo l’opinione pubblica non è una massa informe: ognuno ha le proprie opinioni, il proprio grado di cultura, di preparazione, un diverso grado etico. E allora chi è dotato di una certa obiettività è in grado di rendersi conto di quella che poi è la realtà sottostante a un delitto, ma la maggior parte delle persone invece segue scelte umorali che sono anche conseguenza delle proprie inclinazioni, dei propri istinti. 

 

Ad esempio nell'ambito del processo Meredith, da me presieduto, ho visto come alcuni si siano resi conto dell’incertezza delle prove a carico dei due imputati, mentre devo dire che la maggior parte delle persone che incontro ancora adesso mi chiedono: “Ma allora è vero? Non è vero? Sono stati loro?”, ecc. Quindi devo trarre la conclusione che la maggior parte delle persone si fanno influenzare dai media, mentre una parte minore è in grado di fare una valutazione personale, oggettiva insomma… cioè soggettiva ma oggettiva in quanto basata su elementi reali e riscontrabili.



Un episodio emblematico di quello che lei dice, di questa capacità di discernimento ma anche del rapporto tra media e giustizia, è dato dai filmati delle reazioni dell’opinione pubblica alla sentenza di assoluzione nel caso Kercher. Un suo commento su questo?



Sotto questo punto di vista devo dire che una gran parte della reazione - per quello che ho potuto capire successivamente - è stata un po’ orchestrata dalla Polizia rimasta delusa dall’esito del processo, che è stato istruito sotto la guida del Pubblico Ministero ma dagli organi di Polizia, Polizia Scientifica e Polizia Investigativa. Da quello che ho capito dopo c’è stata una sorta di sobillazione fuori dal Tribunale quindi… che posso dire? Posso dire che sul momento la cosa mi è dispiaciuta, perché questo significa seguire una tesi partigiana.

 

Io prima di entrare in camera di consiglio avevo detto “questa non è una partita di pallone, non ci possono essere tifoserie”, quindi questa reazione a un’assoluzione ha dato un po’ l’idea di una volontà generale di giustizialismo. Al di là di questo però posso dire che la cosa non mi ha particolarmente sconvolto insomma, perché appunto era anche il segno di una mancanza di fiducia nel responso della Corte.



Possiamo anche dire che gli imputati avessero già subito una condanna mediatica. Poi il caso Kercher in qualche modo è stato anche il primo grande “delitto mediatico” prima di altri casi, come quello di Avetrana per esempio. Secondo lei perché tanta risonanza?



Tanta risonanza probabilmente perché l’evolversi dell’utilizzo dei media richiede sempre materia nuova, argomenti nuovi, per alimentare tutto il meccanismo di un certo tipo di comunicazione. Verosimilmente i processi, i delitti incuriosiscono sempre l’opinione pubblica. Non bisogna dimenticare che anche prima dell’avvento della televisione, nell’immediato dopoguerra se non addirittura precedentemente - quando tutta l’informazione era affidata unicamente alla stampa e alla radio, che aveva però un’altra funzione direi, perlopiù di intrattenimento al di là dei giornali radio - questa si era già lanciata nell’inchiesta sui grandi delitti di allora: per esempio c’erano stati dei delitti a Milano, ad opera di una circe che aveva ucciso la moglie dell’amante e i suoi figli (il caso Rina Fort, ndr) e poi il delitto Montesi…insomma già allora si parlava parecchio di vicende di questo tipo.

 

Però il bacino di utenza della stampa era molto, molto, ridotto rispetto a quello attuale della televisione, che è in grado di raggiungere qualsiasi angolo del paese e qualsiasi individuo e quindi diciamo che si è trattato di un’evoluzione naturale a mio parere. Solo che è molto invasiva perché i processi vengono fatti proprio in queste trasmissioni specializzate che si ripetono, cercano di approfondire, e ovviamente per richiamare l’attenzione del pubblico, degli spettatori, ci vogliono elementi un po’ eclatanti, elementi che hanno presa sulla sensibilità della gente tipo appunto la droga, il sesso. Per esempio a proposito del caso che ho seguito ancora adesso c’è gente che mi dice “quelli erano drogati, hanno fatto tutto in preda all’eroina, alla cocaina”…invece in quel processo lì la droga non compare per nulla!



A proposito di questo vorrei chiederle quali erano le prove a sostegno della colpevolezza dei due imputati che sono cadute in secondo grado? Che cos’è che l’ha convinta che non ci fossero i margini per condannarli?



I margini non c’erano perché tutti gli elementi che erano stati affastellati nella sentenza di primo grado erano già inconsistenti. I vari indizi noi li abbiamo razionalmente demoliti uno per uno, contestati uno per uno. Era stato fatto un coacervo di indizi, ognuno dei quali però era del tutto inconsistente, quindi le confesso che già dalla lettura, dallo studio degli atti, prima del processo mi ero reso conto che il tutto poggiava alquanto sulla sabbia diciamo, salvo poi naturalmente l’approfondimento nel corso del procedimento. Io ero già perplesso dallo studio delle migliaia di pagine di carte processuali, poi il convincimento si è formato in camera di consiglio con il mio collega relatore, coi giudici popolari. Ne abbiamo discusso a lungo durante tutto l’anno che è durato all'incirca il processo ed è così che si è formato un convincimento unanime.



Per concludere, diciamo che anche lei in qualche modo è stato toccato, coinvolto, dal cortocircuito mediatico. Qual’è stato l’impatto sulla sua vita e sulla sua carriera?



La mia carriera era ormai alla fine, avrei avuto interesse ed anche piacere - e forse vogliamo aggiungere anche un po’ di ambizione - di diventare Presidente del Tribunale di Perugia, posto per il quale ero in prima posizione nell’elenco dei concorrenti, però ora non voglio dire che sia stata una reazione della categoria per farmi pagare quest’assoluzione contro tutti i pronunziamenti fatti in sede di indagine, in primo grado e così via. Probabilmente è stata una questione di età: io ormai avevo sessantanove anni, è vero che avrei potuto restare fino a settantacinque però forse è stato ritenuto che non garantissi un numero di anni sufficiente a dare un’impronta, una guida, al Tribunale, ecco, quindi mi hanno scartato.

 

La cosa un pochino mi ha ferito però devo dire che mi ha invece convinto ad andare in pensione anticipatamente - di poco perché l’ho fatto quasi a settant’anni quindi è più che sufficiente - e siccome mi trovo così bene in pensione non ho in sostanza nessun rammarico vero e proprio per quello che è stato. Sono andato in pensione, via! Ho visto che l’ambiente non era più così sereno intorno a me e quindi ho lasciato perdere. Adesso sto benissimo, faccio il nonno, mi dedico ai miei hobbies, ai miei interessi. Ho buttato via tutti i libri e non mi sono più interessato di diritto. Del resto l’ho fatto per quarantacinque anni quindi, poteva bastare, no?

 

 


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