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18/11/24 ore

Convegno a Venosa: Cronaca giudiziaria, il linguaggio della verità



Il linguaggio della verità è il titolo del convegno che si è tenuto sabato 4 maggio, presso la Sala del trono del Castello Pirro del Balzo a Venosa. Il convegno - promosso con l’Unesco, la Regione Basilicata, la Città di Venosa e l’Ordine dei Giornalisti -  è stato organizzato dal Club per l’Unesco del Vulture, nell’ambito delle attività per la celebrazione del decennale della propria costituzione ed in occasione della giornata mondiale della libertà di stampa.

 

Dopo i saluti del Presidente Franco Perillo, sono intervenuti sul tema Cronaca giudiziaria: tra diritto di informare e dovere di non deformareAnna Gloria Piccininni, Sostituto Procuratore Distrettuale del Tribunale di Potenza, Enrica Cammarano, giornalista e scrittrice, Fabio Viglione, avvocato penalista del Foro di Roma; a moderare i lavori Mimmo Sammartino, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Basilicata. Nel corso del convegno è stata ricordata, inoltre, la figura del giornalista Rocco Brancati, socio e già Presidente del Club per l’Unesco del Vulture, con consegna di una targa commemorativa alla famiglia.

 

Il rapporto tra libertà di informazione e processo penalecostituisce una tematica di grande attualità anche alla luce di quel fenomeno “degenerativo” ormai noto come “processo mediatico”.

La libera manifestazione del pensiero e la libertà di espressione, previste dall’articolo 21 della Costituzione italiana e dall’articolo 10 della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo, non potrebbero avere effettiva attuazione senza il ruolo svolto dal giornalista. Senza la stampa, infatti, il cittadino rimarrebbe all’oscuro sui fatti che non percepisce in maniera diretta e privato del suo diritto fondamentale ad essere informato. Il ruolo della stampa è, dunque, essenziale nella formazione dell’opinione pubblica e nella “ricerca della verità”.

 

Di seguito alcune riflessioni illustrate dall’avvocato Fabio Viglione nel corso dell’intervento. 

  

 

_______________________________________

 

 

 

 

Riflessioni

 

di Fabio Viglione 

 

Il titolo del convegno delimita un campo. Si tratta di una perimetrazione illuminante: Cronaca giudiziaria: diritto di informare e dovere di non deformare. Già da solo, senza alcun intervento dei relatori, mantiene un equilibrio geometricamente perfetto. Evoca certamente un dover essere della cronaca giudiziaria. Ma alcune riflessioni le sollecita, senza pretesa di esaustività a fronte di un argomento che ha impegnato ed impegna quotidianamente, in molteplici approfondimenti, giuristi, operatori del diritto, giornalisti.

 

Partiamo da una cornice costituzionale.  

   

Il binomio giustizia e informazione è morfologicamente inscindibile in una democrazia. La cronaca giudiziaria, quindi, rappresenta estrinsecazione centrale di quella informazione. Un diritto di informare che comprende una declinazione “attiva” (ed un dovere per chi è chiamato ad informare) ed una declinazione “passiva” relativa al diritto ad essere informati. In questo senso, ci troviamo in presenza di due istanze democratiche fondamentali per assicurare controllo e partecipazione. 

La cornice costituzionale di riferimento è quella che vede negli articoli 21 e 101 le proprie solide basi.  

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”, si legge nell’art. 21 della Costituzione; “ la Giustizia è amministrata in nome del Popolo (non dal Popolo…)” recita il successivo art.101.

 

Esiste, dunque, un controllo diretto o immediato assicurato dalla pubblicità delle udienze e dal diritto riconosciuto a qualunque cittadino di assistervi. (Sarebbe inconcepibile, in uno Stato democratico, la celebrazione di un processo segreto).

 

Vi è, poi, un controllo indiretto o mediato. Non è il cittadino che si “affaccia”, partecipando alle udienze pubbliche, ma è la cronaca del processo che lo raggiunge. Attraverso la radio, il giornale, la televisione e, sempre più spesso – e con più rapidità – attraverso la consultazione di uno smartphone.

 

Ma come può essere operato un controllo da parte della cronaca giudiziaria? Certamente, in un piano di semplificazione, ritengo che non possa operarsi un controllo solo esaminando il risultato al quale un Giudice perviene. Può più correttamente procedersi ad un controllo democratico se anche i metodi attraverso i quali si giunge a quel risultato vengono esaminati.

     

Oggi anche in materia di informazione giudiziaria, si registra una enorme quantità di notizie, spesso poco più di un titolo ed una fotografia. Ma forse, alle troppe informazioni non si accompagna un accrescimento di conoscenza per i fruitori. Anzi, forse si verifica esattamente il contrario. L’informazione, soprattutto in ambito di cronaca giudiziaria – e nel solco di un effettivo controllo sociale – dovrebbe essere qualità e non quantità. Ma qui, poi, il discorso sarebbe molto complesso e si rischierebbe di andare fuori tema. 

 

Il rapporto tra il processo penale e l’informazione, che il titolo del convegno ci invita a considerare, si gioca all’interno di un bilanciamento di diritti.

       

E’ un rapporto complicato. Gli interessi ed i diritti in conflitto necessitano di un sapiente bilanciamento. E la difficoltà sta proprio nel trovare il punto di equilibrio. C’è un diritto-dovere di informare ma c’è un diritto della persona, oggetto dell’informazione, che viene compresso. E’ in gioco la sua reputazione, il suo onore, la sua dignità di Uomo. Dignità, che nessuna accusa, processo o condanna può essere in grado di annientare.

   

Come è noto, prevale il diritto di cronaca sul diritto all’onore ed alla reputazione quando si riconosce alla cronaca il rispetto dei requisiti dell’interesse pubblico, della verità della notizia e della correttezza espositiva. Questo in termini generali. Ma il tema non è solo il possesso di quei requisiti, del superamento dei limiti e dell’ipotesi di diffamazione.

 

Il manifesto che fa da sfondo all’incontro recita: “Il linguaggio della verità”.

 

Si può dire che sia la cronaca giudiziaria che il processo hanno come obiettivo il raggiungimento della verità. Tuttavia occorre intendersi quando si parla di verità a cosa facciamo riferimento. Occorre relativizzare. A voler essere più chiari, possiamo ritenere che esistano ormai tre concetti di verità con i quali confrontarci. 

    

  • Quella storica o di tipo strettamente naturalistico (il fatto così come ebbe o meno a realizzarsi). 
  • Quella processuale (il fatto così come accertato al termine di un processo) 
  • Quella mediatica (la ricostruzione di quel fatto così come impressa nel circuito dell’informazione)

 

Quella storica non impegna la nostra analisi, il rapporto tra le altre due, evidentemente si. La verità mediatica si affianca a quella giudiziaria e prescinde dalle sue regole. Non è una verità fondata su regole di accertamento predeterminate, definite e dotate di certezza. È il processo mediatico: quello che si svolge sugli organi di informazione. 

 

Tende al sensazionalismo, talvolta alla spettacolarizzazione dell’idea stessa di processo finendo per creare una sorta di Foro alternativo. Quasi con una espropriazione della giurisdizione in una frequente esibizione del pensiero dotato di maggiore appeal e dell’opinione più originale. E’ un processo senza regole e senza spazio ma con frequenti ribaltamenti delle regole a partire dalla necessità di avere risposte rapide.

 

Spesso, all’alba di una indagine pretende verità. Ma a quale verità finisce per conformarsi? A quella più rapida ed emotivamente più coinvolgente. 

 

Al contrario, la verità del processo (dell’accertamento giurisdizionale) predica la centralità del dibattimento che ha tempi più lunghi e necessità di un contraddittorio tra le parti. Si celebra di fronte ad un Giudice terzo che non ha gli atti di indagine perché la prova si forma innanzi a lui. 

 

Ha una verginità cognitiva (cosiddetta virgin mind) che va preservata anche da arbitrarie pubblicazioni di atti di indagine che dovrebbero restare solo all’interno del fascicolo del Pubblico Ministero. Ecco la necessità di un approccio più laico e di prudenza nel racconto di una indagine. Tutte le attività precedenti al dibattimento (al giudizio), l’avvio del procedimento, l’avviso di garanzia, le eventuali misure cautelari, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto che dispone il giudizio, non hanno valore di accertamento.  

 

Questo è il modello processuale di riferimento che viene completamente ribaltato nel ritmo e nell’attenzione dell’informazione e nel cosiddetto “processo mediatico”. I due “modelli” hanno velocità e tempi ontologicamente diversi. I ritmi impressi dall’informazione non consentono di seguire l’accertamento processuale ed attendere. Si tratta con enfasi l’avvio di un procedimento e l’eventuale emissione di misure cautelari ma spesso, troppo spesso, si perde di vista il processo.  

 

Quante volte si legge per alcuni giorni di una indagine ed a distanza di tempo ci si chiede “Ti ricordi quel processo? Come è andato a finire?”. Tanto clamore iniziale, scarsa attenzione per la trattazione dibattimentale, ignoto finanche l’esito. Il circuito dell’informazione ha le sue scansioni temporali. Le sue esigenze di orologio e di lancette. La notiziache interessava ieri non interessa oggi e quella di oggi sarà oscurata da quella di domani. C’è una corsa ad una verità immediata che mal si concilia con la peculiarità e la struttura del processo. 

 

Come si può giungere, in tema di cronaca giudiziaria, ad una verità immediata? Solo se si aderisce acriticamente all’ipotesi dell’accusa. Solo se si prescinde dal processo, dal luogo naturale dell’accertamento, è possibile bruciare le tappe così velocemente. 

 

C’è uno spread evidente tra verità mediatiche e verità processuali.  

 

La natura patologica di questo sbilanciamento è stata fotografata anche da un recente  studio dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali. Un “libro bianco” pubblicato nel 2016 all’esito di uno studio condotto in collaborazione con l’Università di Bologna ha messo in luce alcune caratteristiche dell’informazione giudiziaria.

 

Nell’analisi condotta su un campione di ventisette quotidiani e di oltre settemila articoli esaminati, un dato si rileva, sul punto, particolarmente significativo. Quasi il 70 % degli articoli di cronaca giudiziaria si riferiscono alla fase delle indagini. Spazi molto più ridotti sono quindi riservati alla fase del dibattimento ed alle sentenze. Questi dati che hanno riprodotto su basi di scienza statistica le linee di tendenza dell’informazione ci offrono, a mio parare, la principale distorsione. Grande spazio alle indagini, scarsa attenzione per il giudizio.     

 

Ed è proprio questo il punto di frattura con i ritmi e le necessità diverse che caratterizzano accertamenti giudiziari e informazione. La totale svalutazione del processo vero e proprio e la ipervalutazione della fase delle indagini.  Quando il procedimento approda al dibattimento ci sono pochi riferimenti sulla stampa, l’informazione resta sostanzialmente silente. Sono linee di tendenza  cui fanno eccezione ben pochi singoli processi. 

 

Perdendo di vista l’evoluzione del processo cosa accade? Si resta in presenza di risultati parziali e non aggiornati. Senza andare troppo lontano, basta consultare un semplice smartphone per averne  la conferma. E troppo spesso, nel dibattito, un avviso di garanzia finisce per assurgere a sentenza di condanna e la misura cautelare a vera e propria pena.

 

Sarebbe necessaria un po’ di laicità.  Non è questione di “garantismo”, basta semplicemente rimanere all’interno della Costituzione. C’è un principio sempre troppo mortificato: abusato solo a parole. Ed è la chiave di volta. La presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Il principio non ha valenza esclusivamente endoprocessuale ma vale soprattutto nella comunità, all’esterno dei Tribunali. Questo principio dovrebbe orientare come una bussola l’informazione giudiziaria, il racconto di una indagine, il racconto di un processo.

 

Ma questo approccio non serve certo a limitare l’oggetto dell’informazione che deve essere sempre, oltre che libero, massimamente esteso. Serve a disciplinare la forma. Certo che si può e si deve parlare di una indagine se di interesse pubblico ma sempre offrendo al fruitore la regola dell’art. 27. Si tratta di un principio che ha una doppia garanzia, esterna per l’accusato ed interna al processo per la verginità cognitiva del Giudice.  

 

In materia di informazione giudiziaria il rapporto tra presunzione di innocenzae diritto ad un giusto processoè stato ribadito a più riprese anche in ambito europeo proprio dal Consiglio d’Europa. In particolare, una Raccomandazionedel 2003,nel ribadire che “i giornalisti devono avere la possibilità di riferire e commentare liberamente il funzionamento del sistema giudiziario”, ha stabilito che questa libertà deve esercitarsi (art. 2) “nel rispetto del principio della presunzione di innocenza che costituisce parte integrante del diritto ad un giusto processo”.               

 

Interessante sul punto anche la Direttiva del Parlamento Europeo, la n. 343 del 9 marzo 2016, proprio sul  rafforzamento di alcuni aspetti relativi alla presunzione di innocenza.

“ Gli stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato non sia legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche non presentino la persona come colpevole” (art.4).

 

È il tema centrale. Quando l’informazione non sa far buon uso di questa regola fondamentale produce due effetti distorsivi. 

 

Da luogo ad una condanna mediatica anticipata nei confronti dell’accusato al quale neanche la più soddisfacente delle assoluzioni darà ristoro, anche perché il circuito dell’informazione produrrà, come una moderna damnatio memoriae un riferimento nella rete internet permanente ed accessibile a tutti ed in ogni momento.      

 

Crea un condizionamento colpevolista nella pubblica opinione ed una aspettativa di condanna che, ove disattesa, porta ad un risentimento nei confronti dei Giudici con una inevitabile ricaduta in termini di sfiducia nel sistema. 

 

Ma una informazione sbilanciata sull’indagine e sulle tesi dell’accusa (acriticamente riproposte quando non sposate) che affretta le conclusioni può condizionare anche gli esiti del processo? 

E’ una domanda alla quale non è facile dare una risposta. Non basta far leva sulla impermeabilizzazione dei Giudici in ragione della loro preparazione e della loro autonomia.  C’è senz’altro il tema dei giudici popolari che non avendo la preparazione e l’esperienza dei Giudici togati possono farsi suggestionare, anche inconsciamente, dalle ricostruzioni processuali “da salotto”. 

 

Alcuni anni fa, una sentenza della Corte di Cassazione nell’ambito di un processo per un noto fatto di cronaca ebbe ad evidenziare il riflesso negativo che, nella ricerca della verità, può avere un eccessivo clamore mediatico e la spasmodica ricerca di fornire risposte immediate.

 

In questo senso, l’intervento del mese scorso del Presidente della Repubblica alla cerimonia di inaugurazione dei corsi di formazione della Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci si rileva quanto mai appropriato. Parlando ai giovani Magistrati il Presidente ha ribadito che “…la Magistratura, tra l’altro, non deve mai farsi suggestionare dalla pressione che può derivare dal clamore mediatico alimentato intorno ai processi perché le sue decisioni non devono rispondere all’opinione corrente  - né alle correnti di opinioni - ma soltanto alla legge. Non deve essere condizionata da spinte emotive evocate da un presunto, indistinto sentimento popolare, che condurrebbe la giustizia su sentieri ondeggianti e lontani dalle regole di diritto”. 

 

Ma una informazione sbilanciata che ripropone e rielabora risultanze di indagine può condizionare, anche inconsciamente, i testimoni. La loro percezione mnestica di un vissuto. La memoria a lungo termine che viene sollecitata nel corso delle escussioni. Non si tratta di temi patrimonio esclusivo della preoccupazione e della sensibilità degli avvocati. 

  

Nella Relazione del Primo Presidente della Cassazione, nell’anno Giudiziario 2016 venne dedicato un  paragrafo proprio alle “distorsioni del processo mediatico”. Si evidenziava la frattura tra le aspettative di giustizia e gli esiti dell’attività giudiziaria anche a causa del pericoloso ribaltamento della presunzione di innocenza. 

 

Tanto avviene anche perché le fonti spesso esaltate dalla stampa sono generalmente atti di indagine. Ricostruzioni talvolta unilaterali che descrivono solo la metà di un campo. Sono la voce dell’accusa. E, talvolta, sono prive di una autonomia critica da parte degli organi di informazione che si limitano a rilanciare le prime risultanze. Senza la necessaria laicità.

Capita così di imbattersi nella diffusione di atti di indagine che, anche quando non sono più segreti, conservano il divieto di pubblicazione.   

 

Tra gli atti, anche le intercettazioni. Spesso pubblicate anche con riferimenti a fatti privi di un effettivo interesse per l’indagine.  

 

L’esaltazione degli atti investigativi, cartacei, fotografici, audio, audio-video creano uno  sbilanciamento nel circuito dell’informazione. E negli ultimi tempi si assiste, come segnalato dall’Osservatorio sull’Informazione UCPI,  alla messa in onda di quelli che sono stati definiti trailer giudiziari che mostrano l’attività di indagine con il montaggio di atti estrapolati dall’attività investigativa. Questi documenti che inondano il sistema informativo contribuiscono, a mio parere,  ad una rappresentazione in termini di certezze (Solito tema della difesaassente e del dibattimento dimenticato).

 

Troppe volte l’informazione giudiziaria si adagia su questi atti e viene meno alla propria funzione di vaglio critico ed autonomo! La pubblicazione di atti di indagine, tende a svalutare, se non adeguatamente spiegata, la formazione della prova. Così, nell’opinione pubblica si inocula il concetto secondo il quale la parola dell’accusa è verità. La sentenza poi, finisce per essere intesa come una sorta di vidimazione di quella verità. Al netto poi, delle immagini che mostrano foto segnaletiche o imputati in vinculis. Immagini, queste ultime, in relazione alle quali vige un divieto di pubblicazione.  

 

Ed allora, credo che se non si recupera lo sbilanciamento in favore della fase delle indagini l’informazione si traduce in una deformazione della rappresentazione. In questo contesto, la cronaca giudiziaria deve fare la sua parte, venendo incontro alla sua naturale funzione. Oggi nell’epoca della Rete, l’informazione giudiziaria necessita di maggiore accuratezza e controllo. Social mediabloged evocazione del mito di una democrazia diretta. Tutti scrivono e lasciano tracce nella Rete. 

 

Ma come detto, l’informazione nella Rete mantiene sempre la sua attualità. Ed è sempre reperibile da chiunque. L’auspicio è di rompere la tendenza culturale a riportare sempre le prime acquisizioni di indagine in termini di certezza. Il dubbio è sano, è la risposta più aderente al divenire del processo. Le indagini necessitano di verifica dibattimentale. Il giudice terzo nei tre gradi di giudizio non è un passivo vidimatore di una ipotesi. È fondamentale quindi puntare su una informazione libera, responsabile e professionalmente capace. 

 

Non esistono rimedi risolutivi e, in ogni caso, io non sono in grado di individuarli. Si possono però sensibilizzare queste problematiche per una maggiore attenzione su temi solo apparentemente scontati. Non per una perimetrazione operativa ma per un innalzamento qualitativodel livello di informazione, con evidenti ricadute positive sul sistema e sul rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni. In questo senso ritengo molto confortante l’approvazione del Testo Unico dei doveri del giornalista, approvato nel 2016. Nel testo, all’articolo 8, sono previsti importanti obblighi deontologici che innalzano il livello e la qualità di una informazione su temi così delicati. 

 

Dal rispetto “sempre e comunque” della “presunzione di innocenza” all’obbligo di dare appropriato rilevo alle assoluzioni ed agli aggiornamenti “soprattutto per le testate on-line”. Dal “rispetto del principio del contraddittorio tra le tesi” all’attenzione affinché risultino chiare le distinzioni tra “cronaca e commento” tra “indagato, imputato e condannato” tra “Giudice e Pubblico Ministero”. 

 

Anche il C.S.M., nel giugno dello scorso anno ha approvato delle linee guida nell’ambito dell’assetto della comunicazione istituzionale all’interno delle quali si raccomanda agli uffici requirenti di evitare “ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza degli indagati”.

 

Il sistema consente di utilizzare la libertà nel modo più nobile: informazione non deformante. Credo molto nella passione dei giornalisti e dei giovani e nella necessità di perseguire il fine ultimo della informazione indipendente che ben può armonizzarsi con il principio di non colpevolezza in una rappresentazione che sia intimamente rispettosa del “linguaggio della verità”.

 

 

 


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